“[A]i giorni nostri la democrazia, persino nel suo significato più elementare e immediato, implica il superamento delle tre grandi discriminazioni (sessuale o di genere, censitaria e razziale) che erano ancora vive e vitali alla vigilia dell’ottobre 1917 e che sono state superate solo col contributo, talvolta decisivo, del movimento politico scaturito dalla rivoluzione bolscevica. Cominciamo con la clausola d’esclusione, macroscopica, che negava il godimento dei diritti politici alla metà del genere umano e cioè alle donne. In Inghilterra, le signore Pankhurst (madre e figlia), che promuovevano la lotta contro tale discriminazione e dirigevano il movimento femminista delle suffragette, erano costrette a visitare periodicamente le patrie prigioni. La situazione non era molto diversa negli altri grandi paesi d’Occidente. Era Lenin invece, in ‘Stato e rivoluzione’, a denunciare l’«esclusione delle donne» dai diritti politici come una conferma clamorosa del carattere mistificatorio della «democrazia capitalistica». Tale discriminazione veniva cancellata in Russia già dopo la rivoluzione di febbraio, da Gramsci salutata come «rivoluzione proletaria» per il ruolo di protagonista svolto dalle masse popolari, com’era confermato dal fatto che la rivoluzione aveva introdotto «il suffragio universale, estendendolo anche alle donne». La medesima strada era poi imboccata dalla repubblica di Weimar, scaturita dalla «rivoluzione di novembre» scoppiata in Germania a un anno di distanza dalla rivoluzione d’ottobre e sull’onda e a imitazione di quest’ultima. Successivamente, in questa direzione si muovevano anche gli USA. In Italia e in Francia, invece, le donne conquistarono i diritti politici solo dopo la seconda guerra mondiale, sull’onda della Resistenza antifascista, alla quale i comunisti avevano contribuito in modo essenziale o decisivo. Considerazioni analoghe si possono fare a proposito della seconda grande discriminazione, che ha anch’essa caratterizzato a lungo la tradizione liberale: mi riferisco alla discriminazione censitaria, che escludeva dai diritti politici attivi e passivi i non proprietari, i non abbienti, le masse popolari. Già efficacemente combattuta dal movimento socialista e operaio, pur fortemente indebolita, essa continuava a resistere pervicacemente alla vigilia della rivoluzione d’ottobre. Nel saggio sull’imperialismo e in ‘Stato e rivoluzione’ Lenin richiamava l’attenzione sulle persistenti discriminazioni censitarie, camuffate mediante i requisiti di residenza o altri «”piccoli” (i pretesi piccoli) particolari della legislazione elettorale» che in paesi come la Gran Bretagna comportavano l’esclusione dai diritti politici dello «strato inferiore propriamente proletario». (…) E veniamo così alla terza grande discriminazione, quella razziale. Prima della rivoluzione d’ottobre essa era più viva che mai e manifestava la sua validità in due modi. A livello globale il mondo era caratterizzato dal dominio incontrastato, per dirla con Lenin, di «poche nazioni elette» ovvero di un pugno di «nazioni modello» che attribuivano a se stesse «il privilegio esclusivo della formazione dello Stato» negandolo alla stragrande maggioranza dell’umanità, ai popoli estranei al mondo occidentale e bianco e pertanto indegni di costituirsi quali Stati nazionali indipendenti. E dunque, le «razze inferiori» erano escluse in blocco dal godimento di diritti politici già per il fatto di essere considerate incapaci di autogoverno, incapaci di intendere e di volere sul piano politico. Tale esclusione era ribadita a un secondo livello, a livello nazionale: nell’Unione sudafricana e negli USA (…), i popoli di origine coloniale erano ferocemente oppressi: essi non godevano né dei diritti politici né di quelli civili” [Domenico Losurdo, ‘Rivoluzione d’ottobre e democrazia nel mondo’, Napoli, 2015] [Lenin-Bibliographical-Materials] [LBM*]
- Categoria dell'articolo:Nuove Accessioni
- Articolo pubblicato:25 Maggio 2017