“Per Tugan-[Baranowskij] l’unica contraddizione funzionale dell’economia capitalista, da cui tutte le altre scaturiscono, è quindi l’anarchia della produzione. E’ un male incurabile? E’ un male mortale? Che si tratti di un male cronico Tugan n’è convinto con più forza dello stesso ultimo Engels. Caratteristiche essenziali del capitalismo sono «la tendenza permanente all’estensione della produzione», e la mancanza di organizzazione: il risultato sono le crisi di sovrapproduzione che segnano il suo cammino ascensionale. Per eliminarle occorrerebbe eliminare una almeno di queste due caratteristiche, assicurando «l’accumulazione di tutto il capitale sociale e la sua ripartizione metodica tra le diverse branche della produzione» a livello nazionale, eppoi mondiale. Ma «un’organizzazione capitalista dell’economia nazionale» appare a Tugan «una vera utopia»: «il sistema economico capitalista è condannato a restare disarmonico» (24). Criticando, in note redatte all’uso di Kautsky, analogo concetto espresso nel progetto di programma per il Congresso di Erfurt del 1891, Engels osserva invece che la «produzione da parte di singoli imprenditori… sta diventando ogni giorno di più un’eccezione. La produzione capitalistica mediante società per azioni non è già più una produzione privata (…). Se poi (…) passiamo ai trust (…) non soltanto non esiste più produzione privata, ‘ma non possiamo più neppure parlare di assenza di piano’» (25). Il secondo quesito, quello di gran lunga più importante, se cioè questa contraddizione permetta di prevedere che il capitalismo è minacciato da disfunzioni economiche progressive fino alla paralisi inevitabile, è lasciata per ora senza risposta da Tugan. Gli sviluppi logici della teoria delle sproporzioni mettono però a rumore il campo marxista in Occidente, poiché la posta in gioco è di prima grandezza. Infatti, come con lucidità ha sintetizzato il problema Sweezy, «se lo sviluppo del capitalismo è inseparabile da una caduta tendenziale del saggio del profitto o da una tendenza della domanda di consumo a restare sempre più indietro rispetto ai bisogni della produzione, ‘o da entrambe’, allora ci si potrà aspettare che le malattie del sistema progrediranno coll’andare del tempo (…). Allora, veramente, le crisi, che interrompono periodicamente la vita economica della società, dovranno essere considerate come il ‘memento mori’ dell’attuale ordine sociale»; se, invece, questo presagio poggia «su una base puramente immaginaria», perché «le crisi non sono realmente causate da nulla di più indomabile che le sproporzioni nel processo produttivo», allora «non soltanto non è inevitabile che avvenga un collasso del capitalismo», ma «man mano che l’industria si organizza in ‘trusts’ e man mano che progredisce il controllo governativo sull’economia, non è forse evidente che l’anarchia della produzione viene progressivamente eliminata?» (26). E’ in discussione, come nel caso di Bernstein, la fondatezza della prognosi infausta sulle sorti del capitalismo, e quindi la scientificità del socialismo, che risiede appunto nella convinzione che esistano tendenze oggettive all’interno della dinamica della produzione capitalista che la sospingono inesorabilmente verso il socialismo, al cui avvento non basta pertanto la pura volontà di un ordine migliore, ma occorre il cospirare di questa volontà proletaria con quelle tendenze. E Tugan-Baranowsky, svolgendo i logici corollari della sua teoria, approda in seguito alla conclusione che non esistono tendenze del genere. Lo sviluppo del capitalismo è infatti incremento continuo della produttività e ciò basta a consentire una crescita dei salari che non incida sui profitti. L’impoverimento crescente è un fenomeno storicamente legato all’infanzia del capitalismo, ai bisogni dell’accumulazione primitiva, non già all’essenza del sistema, ché una volta preso l’abbrivio l’industria sforna una torta dalle dimensioni che crescono in proporzione geometrica, premettendo così di soddisfare le esigenze del’accumulazione (profitti) senza necessariamente sacrificare quelle del consumo (salari). Su questo punto del resto anche Engels, nella citata nota a Kautsky, aveva nel 1891 apportato una correzione, sia pure più verbale che di sostanza, riconoscendo la possibilità che «le organizzazioni degli operai e la loro resistenza» possano opporre «un certo argine al crescere della miseria», anche se controbilanciava la stentata ammissione con la previsione che sarebbe «sicuramente» aumentata per gli operai «l’incertezza dell’esistenza». Ma Tugan va molto oltre: «quasi più nessuno dispera oggi dell’avvenire della classe operaia nell’ordine economico capitalista». Restano, è vero, le crisi da sproporzione, ma «la previsione di Marx di un succedersi delle crisi ad intervalli sempre più ravvicinati e infine di una crisi cronica che renderebbe impossibile la produzione capitalistica, non si è neppure essa verificata. L’esperienza e la retta dottrina ci insegnano anzi che lo sviluppo del capitalismo non provoca l’insorgere di nuovi ostacoli per lo smercio dei prodotti dell’industria capitalista». ‘Che fare?’ La conclusione è la stessa da cui prendono le mosse strade così radicalmente diverse come il riformismo di Bernstein e la strategia leninista della rivoluzione, riprova questa che il marxismo ortodosso col suo determinismo e le sue attese messianiche era ormai condannato in una posizione di stallo: «Non v’è perciò ragione alcuna di prevedere che il capitalismo debba mai morire di morte naturale; deve essere distrutto dalla volontà consapevole dell’uomo, distrutto dalla classe che esso sfrutta, dal proletariato» (27)” [Domenico Settembrini, ‘Le contraddizioni del capitalismo nelle opere giovanili di Lenin (1893-1902)’, Nuova Rivista Storica, Città di Castello, n. 3-4, 1969] [(24) Tugan, op. cit. [‘Les crises industrielles en Angleterre’, Paris, 1913], pp. 462-64; (25) Marx-Engels, Opere scelte, Roma, 1967, p. 1170; (26) Sweezy, ‘La teoria dello sviluppo capitalistico’, Torino, 1951, pp. 122-23. La novità di questo lavoro, quando uscì nel 1942, stava nel fatto che per la prima volta un marxista rifiutava validità alla legge della caduta tendenziale del saggio del profitto, mentre rivalutava la teoria del sottoconsumo. Sweezy non s’accorge però che senza la prima legge la seconda, ammesso che esista, non può significare il ‘memento mori’ del capitalismo. Dal sottoconsumo si può ricavare la previsione che il capitalismo durerà finché non ci sia più nessun investimento da fare, nessuna nuova tecnica da applicare, e basta. Per ingerirne di più non basta vi sia contraddizione tra profitto e consumo popolare, ma occorre vi sia contraddizione ‘crescente’, come si può dedurre ‘solamente’ dalla tendenza alla caduta del saggio del profitto per aumento della composizione organica del capitale; (27) Tugan-Baranowskij (Baranowsky), ‘L’évolution historique du socialisme moderne’, Paris; 1913, ed. russa 1912, loc. cit., p. 85 e p. 100)]