“Nell’ultimo trentennio, nel contesto sempre ricco ed intenso della letteratura critica intorno all’opera ed al pensiero del filosofo di Ginevra, si è venuto configurando un insieme molto significativo e relativamente nuovo di ricerche di indirizzo marxista. E ciò in diretta connessione con l’ampliarsi degli studi su Marx dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Non è che l’ampliata ed approfondita conoscenza degli scritti di Marx, unitamente alla disamina del pensiero di Hegel, abbiano potuto fornire un’occasione diretta ad una riconsiderazione di Rousseau. Hegel aveva anzi delineato un’antitesi decisa tra la dottrina russoiana del contratto sociale e la sua concezione dello stato etico; ed aveva ritenuta la prima come espressione fedele della concezione atomistica ed individualistica dello stato; Rousseau gli era apparso essenzialmente come il teorico che aveva fondato la realtà dello stato sulla volontà universale, ma intendendo quest’ultima «nella forma determinata di volontà singola» e aveva ricondotto l’universalità della volontà al solo elemento comune alle varie volontà singole, atomisticamente considerate. «Così, aveva commentato Hegel, l’associazione dei singoli, nello Stato diviene un contratto che, quindi, ha per base il loro arbitrio, la loro opinione e il loro qualsivoglia consenso espresso» (1). Per contro, lo stato come realtà etica, secondo la concezione hegeliana, non poteva non collocarsi ad un livello diverso e superiore rispetto a quello degli arbitrii individuali, come realizzazione di una superiore oggettività. Nella ‘Introduzione’ del 1857 alla ‘Critica dell’economia politica’ Marx aveva riecheggiato il rilievo hegeliano quando aveva notato che il contratto sociale di Rousseau, col suo riferimento a dei soggetti per natura indipendenti che esso riusciva a collegare, non costituiva affatto una sorta di ritorno alla vita naturale, ma esprimeva piuttosto l’ingenuità di riferire ad una condizione precedente allo stesso sviluppo storico la situazione dell’individuo che era, per contro, il risultato di uno sviluppo storico preciso, cioè «da un lato della dissoluzione delle forme sociali feudali e, dall’altro, delle nuove forze produttive sviluppatesi a partire dal secolo XVI» (2). Sia nel giudizio di Hegel che in quello di Marx, dunque, Rousseau era stato assimilato al giusnaturalismo del Settecento; e ciò non equivaleva certo ad una sollecitazione a riconsiderare, da parte marxista, il pensiero di Rousseau. Anche se qualche rinvio alle condizioni di asservimento dell’uomo realizzate nella società del tempo e puntualmente segnalate da Rousseau era stato fatto da Marx, nel ‘Capitale’ e in altri scritti. Si può dire, pertanto, che l’attenzione di alcuni studiosi marxisti sia stata condotta a riconsiderare i punti principali della dottrina di Rousseau dall’aver intravveduto una possibile connessione di essi con aspetti importanti della riflessione di Marx, superando, quasi, lo stacco che quest’ultimo aveva prospettato nei riguardi del filosofo ginevrino. (…) Il merito di avere per primo istituito un raffronto Rousseau-Marx spetta in Italia a Galvano Della Volpe, il pensatore che, scomparso nel 1968, si era mosso dapprima nell’ambito della crisi dell’attualismo gentiliano per proporre, in seguito, una sua personale interpretazione del marxismo che ha dato luogo, con gli studi di Mario Rossi, di Nicolao Merker e di Lucio Colletti, ad una vera e propria scuola affermatasi nella cultura italiana degli anni Sessanta. Il saggio ‘Rousseau e Marx’ di Galvano Della Volpe ha avuto una elaborazione molto prolungata nel tempo; la prima edizione fu pubblicata a Roma nel 1957 a raccogliere ricerche di filosofia politica che avevano avuto inizio, per indicazione dello stesso autore, nel 1943. L’impostazione iniziale del giudizio intorno a Rousseau era formulata secondo il criterio di ciò che è vivo e di ciò che è morto nell’opera del Ginevrino; secondo Della Volpe, «appartiene oramai al passato» la considerazione di «Rousseau filosofo utopista dei ‘piccoli stati’ e della piccola borghesia radicale, e quindi ‘vagheggiatore’ di ‘rimedi’ come il livellamento delle classi al fine che non vi siano più né ricchi né poveri»; e appartiene del pari al passato «la interpretazione in chiave giusnaturalistica del messaggio russoiano circa la libertà e personalità umana»; per contro, ciò che è vivo di Rousseau concerne «l’istanza universale (democratica) del merito personale ossia la esigenza del riconoscimento (sociale) di ogni individuo umano, coi suoi particolari meriti e necessità, per cui la ripartizione proporzionale a ogni individuo differente dei prodotti del lavoro della società comunista teorizzata da Marx nel ‘Programma di Gotha’… è destinata essa soltanto a rappresentare il compimento storico dell’istanza russoiana del merito personale» (3)” [(1) Hegel, Filosofia del diritto’, § 258, trad. it. di F. Messineo, Bari, Laterza, 1974; (2) Marx, ‘Introduzione alla Critica dell’economia politica’, trad. it., Roma, 1954, p. 10; (3) G. Della Volpe, Opere, a cura di I. Ambrogio, vol. 6, Editori Riuniti, Roma 1972-73, vol. V, p. 199]