“I mercantilisti, gli economisti politici e persino Hegel (così come Kant e Rousseau) avevano considerato la proprietà come possesso. E altrettanto fece Marx. La sua teoria, tuttavia, richiedeva una reinterpretazione del possesso. Da un lato quella che egli chiamava appropriazione era necessaria all’uomo perché realizzasse il suo «essere come specie», come qualcosa che si crea attraverso l’attività pratica. D’altro lato, tuttavia, appena questa «proprietà veramente umana e sociale» era estraniata da lui per opera di altri uomini, alienandolo così dal suo vero «essere», essa diventava la proprietà di qualcun altro, diventava qualcosa di un genere diverso. Era questa vera proprietà alienata a costituire la proprietà privata. Nel sostenere ciò Marx raggiunse così a più straordinaria connessione concettuale tra le due parti fino allora separate dell’economia politica e tra questa e Hegel. Nelle sue stesse parole «ogni ricchezza è diventata ricchezza ‘industriale’, ricchezza del ‘lavoro’, e l”industria’ è il lavoro condotto al suo compimento, così come la fabbrica è l’essenza compiuta dell”industria’ cioè del lavoro, e il ‘capitale industriale’ è la forma oggettiva della proprietà privata, giunta al proprio compimento. Vediamo come anche ora soltanto la proprietà privata possa condurre a compimento il suo dominio sugli uomini e diventare nella forma più generale la potenza della storia mondiale». Il comunismo pertanto, doveva essere la negazione di questa negazione dell’uomo. Il comunismo «rozzo», sostenne Marx, «non ha ancora colto l’essenza positiva della proprietà privata». Esso o propugnava un’uguale quantità di proprietà per ognuno, oppure sosteneva l’abolizione della proprietà in quanto tale. Nel primo caso non riusciva a cogliere la distinzione fra proprietà «vera» e proprietà «privata», nel secondo aboliva anche la «vera» proprietà e la alienava nello stato, il quale pertanto diventava il capitalista. Il vero comunismo doveva superare la proprietà privata e di conseguenza comportare il ritorno all’uomo per sé, dell’uomo come essere sociale, cioè «umano». Esso «è la ‘vera’ risoluzione dell’antagonismo tra la natura e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo, la vera risoluzione della contesa tra l’esistenza e l’essenza, tra l’oggettivazione e l’autoaffermazione, tra la libertà e la necessità, tra l’individuo e la specie». Ogni ricchezza è ora diventata ricchezza industriale, la proprietà privata è giunta al suo completo dominio ed è diventata una potenza storica mondiale. Tale potenza storica mondiale, tuttavia, nega l’uomo in quanto specie e produce così la sua negazione della negazione. In tal modo esso prepara la soluzione finale. Il comunismo – sostenne Marx – costituisce la soluzione del problema della storia, ma – egli aggiunse – «non è come tale la meta dello svolgimento storico, la struttura della società umana». L’ideale della ‘volonté générale’, della legge universale, della vera ‘Sittlichkeit’ [morale], aveva assunto una forma concettualmente più potente e storicamente più immediata. Essa così indirizzava più direttamente alla prassi politica” [Geoffrey Hawthorn, ‘Storia della sociologia. Dall’illuminismo alla disillusione’, Bologna, 1980]