“I germi della contraddizione, tipica del massimalismo ma anche di tutta la sinistra rivoluzionaria italiana, tra l’aspirazione alla presa del potere e l’incapacità pratica di realizzarla, esistevano quindi ‘in nuce’ sin dalle prime fasi del «biennio rosso». Il Congresso di Bologna (1919, ndr), l’apogeo del massimalismo, ne permettevano da lì a poco il completo dispiegamento. In quell’assise Serrati, affermando che con la guerra imperialista era venuta a mancare la possibilità di un graduale ed incruento trapasso di poteri e che quindi il proletariato doveva prepararsi a risolvere la crisi capitalistica in senso rivoluzionario e violento (9), lanciava una vera e propria dichiarazione di guerra alla borghesia, che spostava radicalmente l’asse della politica socialista, allontanandola dalla vecchia ipotesi gradualistica sancita a Genova nel 1892 e mettendola in linea con la proposta bolscevica dell’insurrezione. Il convinto «siamo con Lenin» pronunciato da Serrati, non teneva però conto di due importanti circostanze che ne impedivano la pratica attuazione. La prima riguardava l’enorme diversità di esperienza tra il PSI e il partito bolscevico. Certo i bolscevichi, come teneva a ricordare Serrati, avevano preso parte alla lotta elettorale (10), ma era stata una scelta tattica inserita in una strategia di lotta violenta per il potere che metteva capo alla formazione di un partito ideologicamente omogeneo, fortemente centralizzato, attrezzato ad una lotta legale ed illegale, ma il cui terreno risolutivo era pur sempre quello dello scontro armato. Il PSI, come tutti i partiti secondinternazionalisti, proveniva invece da un’esperienza del tutto diversa che concepiva la partecipazione alle elezioni non come momento tattico, bensì come parte integrante di un’ipotesi di conquista graduale e pacifica del potere statale, sostenuta da un’organizzazione capillarmente presente a livello della società politica e civile, ma incapace di muoversi su un terreno di lotta illegale. La seconda era costituita dall’insanabile contrapposizione teorica tra Lenin e Serrati circa il ruolo del partito nella soluzione della crisi capitalistica. Lenin aveva lavorato attivamente a rendere irreversibile la crisi capitalistica e a darle un esito socialista, impostando il partito come organizzazione della presa del potere, come dirigente politico e militare dell’insurrezione. Serrati riteneva invece che l’esito rivoluzionario fosse inevitabile e bollava perciò di volontarismo qualunque intervento soggettivo. Il capo massimalista stabiliva una netta divisione dei settori di intervento: alla folla l’insurrezione, «il fatto meccanico ed inevitabilmente spontaneo dell’azione violenta e risolutiva» (11), al partito il compito di predisporre le forze necessarie a raccogliere il potere e a consolidarlo, impedendo definitivamente il ritorno della borghesia (12). Il partito guida dell’insurrezione era, per Serrati, una vecchia idea romantica, blanquista, volontarista. L’insurrezione non era un fatto organizzato che rispondesse a regole precise, non era quell’arte che Engels aveva proposto allo studio dei militanti socialisti. L’insurrezione era la sommossa popolare, era soprattutto solo un episodio della rivoluzione, non la rivoluzione ‘tout court’ (13). La sottovalutazione, o quanto meno la non centralità del problema insurrezionale, non era d’altra parte esclusivo appannaggio del massimalismo, riguardava anche ampi settori della sinistra comunista europea e, in Italia, Antonio Gramsci (14). La riflessione politica del dirigente ordinovista stava allora approdando all’idea di un processo rivoluzionario basato sulla crescita della classe operaia come soggetto politico diretto. Lo sconvolgimento, indotto da questo processo, del vecchio blocco sociale dominante e la sostituzione ad esso del nuovo blocco emergente, si sarebbe concluso con la presa del potere invece di avere inizio da essa. Si realizzava, in tal modo, il passaggio di Gramsci dal concetto di insurrezione a quello di lotta rivoluzionaria come opera di distruzione sistematica e molecolare del dominio capitalistico (15). Unico fra le figure più rappresentative della sinistra italiana, era Amadeo Bordiga a parlare di insurrezione non come di un sinonimo di presa del potere, bensì intendendo alludere ad una teoria della rottura rivoluzionaria di evidente impronta leninista, se non addirittura blanquista: un colpo di maglio risolutivo, concentrato nel tempo e nello spazio, teso alla conquista del potere politico, organizzato dal partito, «un’audace minoranza di individui pronti alle responsabilità e ai pericoli della lotta nel periodo dell’insurrezione» (16). Fra i molti limiti, questa teoria bordighiana dell’insurrezione ne troverà uno invalicabile: l’assenza del partito, non surrogabile da alcuna altra istanza organizzativa, addotta a scusante della rinuncia ad ogni azione. Il socialismo rivoluzionario italiano si presentava dunque sulla scena politica di quell’infuocato dopoguerra animato da un’aspirazione alla presa violenta del potere genuina ma generica, priva di ogni riferimento al come e al quando dovesse avvenire. Il frequente ricorso al termine insurrezione, non significava però allusione all’unica forma storica in cui essa avesse trovato realizzazione vittoriosa, cioè la teoria leninista dell’insurrezione preparata e diretta dal partito”  [Giampiero Minasi, ‘L’attività illegale del PSI nel biennio 1919-20’, Storia contemporanea, n. 4, agosto 1978] [(9) «(…) il fatto vero, evidente, è ora questo: che dopo trenta anni di lenta, graduale opera per la conquista del pubblico potere allo scopo di trasformare l’organismo dello Stato, noi abbiamo avuto la guerra mondiale; abbiamo avuto cioè la dimostrazione più palmare, più limpida, più chiara che questi strumenti non si trasformano, che arriva un momento in cui essi diventano più precisamente e più intensamente gli strumenti del dominio della classe capitalistica, che la classe capitalistica non si lascia spossessare dei suoi privilegi attraverso la graduale conquista dei poteri. Abbiamo avuto la sensazione precisa, dopo la guerra, che se il proletariato vuole arrivare alla conquista del pubblico potere, è necessario che dopo la opera lenta di preparazione graduale che noi abbiamo accettato e che abbiamo fatta, impieghi altri mezzi, altri strumenti di lotta». ‘Resoconto stenografico del XVI Congresso Nazionale del Partito Socialista italiano, Bologna, 5-6-7-8 ottobre 1919, Roma, 1920; p. 170; (10) «Siamo con Lenin quando, in un determinato momento della vita politica del proprio paese, dice “lotta elettorale, conquista graduale e lontana” e nell’altro periodo dice “non più lotta elettorale pacifica, ma scendiamo in piazza”», ibid.; (11) G.M. Serrati, ‘Il dovere dell’ora presente’, in “Comunismo”, 1-15 ottobre 1920, II-1, p. 3; (12) Serrati riconosceva nella congiuntura politica del dopoguerra l’impossibilità di alternative al fare la rivoluzione. «Ma bisogna anche intendersi – scriveva egli (art. cit.) – sopra il significato, apparentemente volontaristico, di questo verbo “fare”. Fare la rivoluzione non vuole tanto dire incitare l’atto violento risolutivo – il quale, secondo io penso, non è che una necessaria conseguenza di tutta una situazione e viene quindi fatalmente da sé – quanto il preparare gli elementi che ci diano la possibilità di approfittare, come partito, di questo inevitabile atto e di trarne tutte le conseguenze socialiste che sono consentite dai tempi e dall’ambiente… Il compito del PSI non è secondo me tanto quello di condurre le folle in piazza – come pensano i romantici della barricata – quanto quello di approntare tutte le forze dell’assestamento socialista, indispensabili per consolidare il nuovo regime e renderne possibile il definitivo trionfo»; (13) «Qual è la situazione oggi? E’ indubbiamente una situazione rivoluzionaria… non nel senso infinitamente primitivo nel quale credono le nostre folle, vale a dire la rivoluzione è la sommossa, è la discesa in piazza, l’urto col carabiniere e con la guardia regia. E’ rivoluzione perché tutta l’impalcatura capitalistica
si sfascia, tutto crolla, e noi ci avviciniamo ad assumere, noi, per conto del proletariato, il potere. (…) (Testo stenografico del Consiglio nazionale socialista, 18-22 aprile 1920, Roma 1967 pp. 106-107); (14) Il fatto è che l’insurrezione, quale veniva proposta dai bolscevichi, non era l’unico metodo valido per la presa del potere né discendeva da regole generali (…); (15) La concezione della distruzione molecolare dello stato borghese e della contemporanea costruzione dell’antistato, non esclude il momento della rottura violenta, rivoluzionaria, solo che questo deve collocarsi al termine di un processo di ampia e non autoritaria aggregazione sociale (…); (16) A. Bordiga, ‘Formiamo i Soviet?’, in “Il Soviet”, 21.9.1919. Bordiga non elaborò mai un’organica teoria della rivoluzione, tuttavia da numerosi scritti in cui egli fa riferimento esplicito a tale problema, emerge una concezione dell’insurrezione che inserisce il leader astensionista in quel filone di pensiero rivoluzionario che parte da Blanqui, passa per alcune enunciazioni di Marx ed Engels, e arriva con Lenin a piena maturità come teoria dell’insurrezione, depurata dagli elementi di volontarismo presenti all’origine. Ma in questo ambito Bordiga si colloca addirittura più vicino a Blanqui che non a Lenin. Non che egli sia un romantico della barricata, un quarantottista, che anzi è chiarissimo in lui il rifiuto della teoria del colpo di mano di minoranze audaci, del putschismo, dell’offensiva esemplare; egli è nondimeno un blanquista per quell’aspetto che caratterizza il blanquismo non meno della vocazione al complotto, cioè il riferimento alle masse come ad un magma indistinto, ad una realtà prepolitica cui solo il partito può dare forma e coscienza. Lo stesso Bordiga ha, d’altra parte, espresso un giudizio positivo sul blanquismo. In uno scritto recente (‘Storia della sinistra comunista, 1919-20. Dal Congresso di Bologna del PSI al secondo Congresso dell’IC’, Napoli, 1972, p: 197), che se non può essere attribuito con certezza a Bordiga, è certo da lui ispirato, si legge: «E’ caratteristico non solo che “destra” e “sinistra” (con questi termini sono poco prima designati, rispettivamente, l'”indirizzo socialdemocratico” e le “tendenze operaistiche”, “versioni estremistiche della conquista progressiva, molecolare del potere n.d.a.) opportunistica abbiano sempre denunciato il blanquismo e il giacobinismo marxista, ossia la concezione della leadership rivoluzionaria (e quindi arte dell’insurrezione) e della dittatura esercitata dal partito comunista, ma che a tal uopo siano ricorse allo stesso arsenale di argomenti puramente democratici, la cui gamma si estende dalle apparenze liberal-conservatrici, a quelle libertarie-eversive, ma la cui sostanza dottrinale, e le cui motivazioni materiali di base, restano le stesse: importazione nel movimento della ideologia dominante capitalistica»] [Lenin-Bibliographical-Materials] [LBM*]