“(…) [U]na prospettiva materialistica – non metafisica come quella degli illuminati o dei positivisti, ma storicamente determinata e tesa a cogliere i ‘rapporti’ materiali fra gli uomini come quella proposta da Marx – è in grado di fornire un’interpretazione non idealizzata ma concreta, non moralistica ma politica, del militarismo industriale e delle realtà ad esso collegate come il protezionismo (3). Questa è la scoperta che compie Rosa Luxemburg nel momento in cui, sulle tracce di Engels, esamina il militarismo nella storia della Germania moderna. Diversamente da quanto mostrano di credere i liberali, militarismo e protezionismo non possono giudicarsi in astratto, come altrettanti fenomeni naturali, autonomi dal contesto nel quale hanno preso e prendono corpo. Capirne le caratteristiche, le contraddizioni, gli esiti, in una parola la ‘ragione’, significa invece valutare il ruolo che l’uno e l’altro hanno avuto nella storia, che è essenzialmente storia di rapporti di produzione e della coscienza che di questi rapporti gli uomini hanno posseduto. Appare così che protezionismo e militarismo, fenomeni degenerativi dell’economia e della società a cavallo tra i due secoli, avevano rivestito un ruolo diverso cento anni prima, alla nascita della Germania (e dell’Europa) contemporanea. Come nella Germania del primo Ottocento, frantumata in tanti stati feudali, il protezionismo aveva rappresentato un potente contributo alla nascita dell’industria e all’unificazione del mercato, così guerra e apparato militare sviluppatisi nel corso delle campagne anti-napoleoniche, avevano creato i presupposti per l’unificazione del paese e per il sorgere dello stato moderno. «Se osserviamo la storia non come avrebbe dovuto essere, ma come realmente si è svolta – scrive la Luxemburg – è giocoforza constatare che la guerra ha costituito il fattore imprescindibile dello sviluppo del capitalismo. Stati Uniti d’America e Germania, Italia e stati balcanici, Russia e Polonia, tutte hanno trovato impulso od opposizione al loro sviluppo capitalistico nelle guerre combattute, non importa se vittoriose o meno. Finché sono esistiti paesi che dovevano superare lo sbriciolamento interno o l’isolamento dell’economia naturale, anche il militarismo ha svolto in senso capitalistico un ruolo rivoluzionario» (4). Sullo scorcio dell’Ottocento, in una fase non più giovane ed espansiva ma senescente e difensiva del sistema borghese, conclude la Luxemburg, le cose stanno diversamente: il protezionismo non serve più allo sviluppo dell’industria, ma alla difesa dei mercati degli imprenditori; quanto al militarismo, questo continua a esercitare una funzione centrale, sì, ma unicamente a favore della classe capitalistica. «Anzitutto come strumento di lotta per gli interessi «nazionali» in concorrenza con altri gruppi nazionali, in secondo luogo come il più importante genere di investimenti sia per il capitale finanziario che per quello industriale, e in terzo luogo come strumento di dominio di classe interno nei rispetti della popolazione operaia – tutti interessi questi che in sé non hanno nulla di comune col progresso del sistema di produzione capitalistico». Cartina al tornasole dello specifico ruolo del militarismo contemporaneo, «la generale corsa agli armamenti sostenuta da tutti i paesi, a causa, per così dire, di una propria interna spinta meccanica, un fenomeno che ancora un paio di decenni fa era completamente sconosciuto (…). Da forza motrice dello sviluppo capitalistico anche il militarismo è diventato una malattia capitalistica (5)»” [Fabrizio Battistelli, ‘Armi: nuovo modello di sviluppo? L’industria militare in Italia’, Torino, 1980] [(3) ‘Per una ricostruzione del punto di vista marxista sulla questione militare in generale, rinviamo a F. Battistelli (a cura di), ‘Esercito e società borghese’, Savelli, Roma, 1976′; (4) R. Luxemburg, ‘Riforma sociale o rivoluzione?’, in Id., ‘Scritti scelti’, a cura di L. Amodio, Einaudi, Torino, 1975, p. 94; (5) Ibid., p. 95]