“Ora il costante aumento del plusvalore relativo, o del ‘surplus’ (considerato in questo passo nella forma di valore), che si accompagna allo sviluppo della produzione capitalistica, non si limita a creare le condizioni di una elasticità tendenzialmente crescente nella determinazione della distribuzione del prodotto sociale, dunque anche nella determinazione dei livelli salariali, secondo i rapporti di forza volta per volta esistenti tra le classi in ogni determinata formazione economico-sociale (25); esso ‘produce’ anche l’inserimento di un’«altra» classe tra capitalisti e classe operaia. Se si ipotizza un aumento della produttività dell’industria tale che un terzo della popolazione, invece che due terzi, partecipi direttamente alla produzione materiale; se si ipotizza, cioè, che prima due terzi fornissero i mezzi di sussistenza e di riproduzione per i tre terzi, e ora un terzo soltanto; che prima “il reddito netto (distinto dal reddito degli operai) fosse un terzo, e ora due terzi”, prescindendo dall’antagonismo delle classi, dice Marx, “la nazione prima disponeva di un terzo del suo tempo per la produzione immateriale, mentre ora ne dispone di due terzi. Con una ripartizione proporzionale, tutti i tre terzi avrebbero una maggiore quantità di tempo per il lavoro improduttivo e per i propri comodi. Ma nella produzione capitalistica tutto appare ed è antitetico” (26). Ove la antiteticità consiste in questo, che, dato il modo capitalistico di produzione, e dato il corrispondente modo di distribuzione, la distribuzione del “tempo a disposizione” non può essere proporzionale – “ché se ciascuno lavorasse solo il tempo sufficiente alla riproduzione dei mezzi di sussistenza, per i capitalisti non vi sarebbe ‘surplus’ di cui appropriarsi” (27). Ma – a prescindere dagli indici numerici – ciò che nella proposizione ora citata viene da Marx ipotizzato è una effettiva tendenza della produzione fondata sul rapporto capitalistico di produzione: «Da un lato è tendenza del capitale ridurre a un minimo sempre minore il tempo di lavoro necessario alla produzione delle merci, dunque anche il numero della popolazione produttiva ‘in rapporto’ alla massa del prodotto» (28). La questione del determinare quale sia il destino della parte di popolazione progressivamente espulsa dal processo di produzione delle merci è quindi l’immagine della questione del determinare quale sia il destino della crescente massa del ‘surplus’ prodotto nelle società dominate dal modo di produzione capitalistico. In misura crescente tale ‘surplus’ non solo può, ma deve essere speso in lavoro “improduttivo”: «Sebbene non rientri in questa sede, si può tuttavia già qui ricordare come alla creazione di plusvalore da un lato, corrisponda una creazione di minus-lavoro, relativamente inutile (o nel caso migliore, ‘non produttivo’) dall’altro. Ciò è evidente soprattutto riguardo al capitale stesso, ma poi anche alle classi con le quali esso si associa, poveri, servi, galoppini ecc. che vivono del prodotto eccedente, insomma all’intero ‘seguito sociale’, e a quella parte della classe ‘servile’ che non vive di capitale, ma di reddito (…). Perciò Malthus è assolutamente coerente quando accanto al pluslavoro e al pluscapitale, pone l’esigenza di una eccedenza di oziosi che consumano senza produrre, ovvero la necessità dello spreco, dello sperpero, ecc.» (29). Si osserverà a questo proposito che Marx, contrapponendo lavoratori produttivi a oziosi, valendosi, anche dal punto di vista terminologico, di nozioni analitiche proprie dell’economia politica classica, da Steuart, alle ‘Lezioni’ smithiane, ai ‘Principi’ di Ricardo e di Malthus (“servile”, contrapposizione reddito-capitale, “seguito”), si riferisce a classi cui il capitale “si associa”, a classi la cui esistenza sembra storicamente presupposta alla sua esistenza di capitale; o comunque a una conduzione di basso grado di socializzazione dei servizi che, rispetto alla tendenza del modo di produzione capitalistico a sottomettere e per ciò stesso a conformare alla propria specifica natura le situazioni storicamente date e preesistenti, si presenta come una sopravvivenza del passato. E si farà una analoga osservazione a proposito del passo della ‘Storia delle teorie economiche’ che riporto di seguito, almeno nella misura in cui è il carattere personale dei servizi di cui si parla che risulta soprattutto evidente: «Se gli operai produttivi sono quelli pagati dal capitale, e gli improduttivi quelli pagati dal reddito, è evidente che la classe produttiva sta alla improduttiva come il capitale sta al reddito. Ma l’accrescimento proporzionale delle due classi non dipende soltanto dal rapporto esistente fra la massa dei capitali e la massa dei redditi, ma anche dal rapporto in cui il reddito crescente (profitto) si converte in capitale o è speso come reddito. Benché la borghesia fosse originariamente molto economa, la produttività crescente del capitale, cioè degli operai, l’ha portata a imitare le corti feudali. Secondo l’ultimo rapporto (1861) sulle fabbriche, la cifra complessiva delle persone (compreso il personale amministrativo) impiegata nelle fabbriche vere e proprie del Regno Unito ammontava a sole 775.534 unità, mentre il numero delle domestiche ammontava, soltanto in Inghilterra, a un milione. Che bella organizzazione! Una ragazza deve sudare 12 ore in una fabbrica perché il principale, con una parte del lavoro non pagatole, possa prendere al suo servizio personale la sorella di lei come serva, il fratello come stalliere, il cugino come soldato o poliziotto» (30). Non solo, tuttavia, qui, come in genere in tutta l’opera di Marx, è da tenere presente che quanto si afferma del singolo individuo è da riferirsi in generale alla classe cui il singolo appartiene, perché in questa opera “si tratta delle ‘persone’ soltanto in quanto ‘personificazione di categorie economiche, incarnazione di determinati rapporti e di determinati interessi di classi”. (…)” [Lorenzo Calabi,  ‘Sul problema delle classi medie e il metodo del ‘Capitale”, (estratto da introduzione a ‘La crisi della società industriale’ di Norman Birnbaum, Padova, 1971] [(26) Karl Marx, ‘Theorien über den Mehrwert’, ed. Kautsky, I, tr.it. di E. Conti, ‘Storia delle teorie economiche’, I, Torino, 1954, p. 309; (27) Martin Nicolaus, op, cit., p. 38; (28) Karl Marx, ‘Theorien über den Mehrwert’, I, Mew, 26.1, 1965, p. 199; (29) Karl Marx, ‘Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica’, I, cit., p. 417; (30) Karl Marx, ‘Storia delle teorie economiche’, I, Torino, 1954, pp. 292-93]