“Oggi, fra i cinesi, regna manifestamente uno stato d’animo ben diverso da quello della guerra 1840-42. Allora il popolo non si mosse: lasciò che i soldati imperiali lottassero contro gli invasori e dopo ogni sconfitta si inchinarono con fatalismo orientale alla volontà superiore del nemico. Ora invece, almeno nei distretti del sud ai quali il conflitto è rimasto finora limitato, le masse popolari partecipano attivamente, quasi con fanatismo, alla lotta contro lo straniero. Con fredda premeditazione, esse avvelenano in blocco il pane della colonia europea di Hongkong. (Liebig poté stabilire in alcune pagnotte, che gli erano state mandate in esame, la presenza diffusa e uniforme di grandi quantità di arsenico: segno indubbio che il veleno era già stato lavorato nella pasta. Ma la dose era così potente che agì come emetico, annullando gli effetti mortali). I cinesi salgono armati sulle navi mercantili, e durante il viaggio massacrano la ciurma e i passeggeri europei. Si impadroniscono dei vascelli. Rapiscono e uccidono qualunque straniero capiti vivo nelle loro grinfie. Perfino i ‘coolies’ a bordo delle navi trasporto degli emigranti si ammutinano come per un’intesa segreta; lottano per impossessarsi degli scafi; piuttosto che arrendersi, colano a picco con essi o muoiono nelle loro fiamme. Anche i coloni cinesi all’estero- finora i sudditi più umili e remissivi – cospirano e, come a Sarawak, insorgono in brusche rivolte o, come a Singapore, son tenuti in scacco solo da un rigido controllo poliziesco e dalla forza. A questa rivolta generale contro lo straniero ha portato la brigantesca politica del governo di Londra, che le ha imposto il suggello di una guerra di sterminio (37). Che cosa può fare un esercito contro un popolo che ricorre a questi mezzi di lotta? Dove, fino a che punto, deve spingersi in territorio nemico? Come può mantenervisi? I trafficanti in civiltà, che sparano a palle infuocate contro città indifese, e aggiungono lo stupro all’assassinio, chiamino pure barbari, atroci, codardi, questi metodi; ma che importa, ai cinesi, se sono gli unici efficaci? Gli inglesi, che li considerano barbari, non possono negar loro il diritto di sfruttare i punti di vantaggio della loro barbarie. Se i rapimenti, le sorprese, i massacri notturni vanno qualificati di codardia, i trafficanti in civiltà non dimentichino che, come hanno essi stessi dimostrato, i cinesi non sarebbero mai in grado di resistere, coi mezzi normali della loro condotta di guerra, ai mezzi di distruzione europei. Insomma, invece di gridare allo scandalo per le crudeltà dei cinesi (come suol fare la cavalleresca stampa britannica), meglio faremmo a riconoscere che si tratta di una guerra ‘pro aris et focis’, di una guerra popolare per la sopravvivenza della nazione cinese – con tutti i suoi pregiudizi altezzosi, la sua stupidità, la sua dotta ignoranza, la sua barbarie pedantesca, se volete, ma pur sempre una guerra popolare. E, in una guerra popolare, i mezzi dei quali si serve la nazione insorta non si possono misurare né col metro d’uso corrente nella guerra regolare, né con altri criteri astratti, ma solo col grado di civiltà che il popolo in armi ha raggiunto. Gli inglesi si trovano, questa volta, in una situazione difficile. Finora non sembra che il fanatismo nazionale cinese si estenda al di là delle province del sud, che non hanno aderito alla grande rivolta. Ma la guerra potrà restarvi circoscritta? Se così fosse, non si otterrebbe nulla di concreto, poiché nessun territorio vitale dell’impero ne sarebbe minacciato. Senonché il grande pericolo, per gli inglesi, è che il fanatismo si estenda ai popoli della Cina interna. Si può radere al suolo Canton, si possono sbocconcellare interi pezzi di costa: ma tutte le forze che gli inglesi riescono a mettere insieme non sarebbero mai sufficienti ad occupare e mantenere le due province del Kwangtung e del Kwangsi” [F. Engels, ‘Persia – Cina’, Londra 22 maggio 1857, New York Daily Tribune’, 5 giugno 1857, articolo scritto da Engels su richiesta di Marx (lettere dell’8 e del 20 maggio 1857)] [(in) Karl Marx Friedrich Engels, ‘India Cina Russia’, Milano, 1970, a cura di Bruno Maffi]