“Allorquando il meccanismo industriale capitalista ha determinato una grande quantità di un certo prodotto e tenta di collocarlo su diversi mercati, vi è una grande offerta rispetto a quella che è la limitata domanda dei consumatori, il prezzo comincia a discendere e discende al di sotto di un livello che rende impossibile per l’intraprenditore capitalista di seguitare la produzione: le fabbriche si chiudono, gli operai vengono licenziati, non ricevono più il salario e siccome in ultima analisi sono essi sempre i consumatori e gli acquirenti, la crisi ulteriormente si acutizza. Quindi l’aver accumulato una grande quantità di quei beni che sono necessari a tutte le funzioni della vita umana, anziché essere condizione di benessere, nel regime capitalista diventa condizione di malessere, determina la chiusura delle officine, l’arresto della produzione, finché a poco a poco mediante il consumo o la distribuzione stessa dei prodotti dell’industria capitalista non si venga a ristabilire l’equilibrio e si possa riorganizzare la produzione. Il marxismo denunciava certi periodi di queste crisi capitaliste; si seguivano a distanze di dieci anni, si ripetevano a carattere sempre più accentuato e riusciva sempre più difficile il mettervi rimedio. Ora qui molto si potrebbe discutere, se volessimo seguire quelle che erano le linee dell’acutizzarsi generale della crisi capitalista e il prepararsi della catastrofe finale come venivano tratteggiate dalla critica economica marxista. Ma possiamo omettere questa esposizione, in quanto che ci troviamo di fronte ai fatti, che hanno nettamente confermate le previsioni catastrofiche del marxismo in ordine allo sviluppo del capitalismo borghese. Se ci addentrassimo, sulle orme di Marx, nell’analisi di quello che è il gioco del capitale finanziario e di quel fenomeno che è stato chiamato imperialismo, noi vedremmo che la classe capitalista che è al potere ha cercato bensì di reagire alla condanna che le pesava addosso, ha cercato di eludere questa crisi finale, ma non ha potuto far altro che dilazionarla, rendendola più grave. La fase più recente, cioè l’imperialismo, ci mostra le coalizioni dei grandi capitalisti, i grandi trust, i grandi sindacati, direttamente appoggiati dal grande apparato degli stati borghesi, che con la loro opera di compensazione colla conquista politica e militare dei mercati coloniali, cercano di neutralizzare la crisi capitalista, cercano di fare ancora qualche cosa; di più, cercano di estendere la loro influenza anche al di fuori della parte puramente economica, nella parte politica. Essi comprendono che questa grande massa di proletariato, questa grande massa del lavoro continuamente sacrificata dal capitalismo, sfruttata completamente nelle officine, comincia ad alimentare in sé il massimo sforzo rivoluzionario per poter arrivare a infrangere i rapporti da cui derivano tali condizioni d’inferiorità e quindi si contrappone come forza, demolitrice prima e rigeneratrice dopo, a tutto il mondo capitalista nelle sue esplicazioni economiche, sociali, politiche. L’imperialismo capitalista cerca perciò di arginare anche dal punto di vista politico il dissolversi del suo regime, come ben dice nel suo recente lavoro il compagno Bucharin (1): l’imperialismo fa tutte le mobilitazioni, non solo dell’economia capitalista, per cercare di irregimentarla, non solo la mobilitazione militare attraverso a quella corsa agli armamenti che si determina per le rivalità tra i grandi gruppi capitalistici, ma anche la mobilitazione ideologica del proletariato; cerca di incanalarlo anziché nel grande sforzo finale, in vie erronee ed oblique che possono convergere in un’opera di ricostruzione della disgregazione capitalista, di fare una mobilitazione di forze politiche che permetta di deviare l’urto delle forze rivoluzionarie del proletariato, attraverso quel fenomeno del social-riformismo e del social-patriottismo in cui attraverso le degenerazioni parlamentaristiche da una parte e corporativistiche dall’altra si traggono dalla stessa unione proletaria coefficienti di sostegno per lo stato borghese” [A. Bordiga, ‘Dall’economia capitalistica al comunismo’. Conferenza tenuta a Milano il 2 luglio 1921, (in) Amadeo Bordiga, a cura di Luigi Gerosa, Scritti, 1911-1926. VI. Di fronte al fascismo e alla socialdemocrazia. Il fronte unico proletario. 1921-1922, Fondazione Amadeo Bordiga, Formia, 2016] [(1) Si tratta dell’opera ‘Ekonomica perechodnogo perioda. Obscaja teorija trasformacionogo processa’ (Economia del periodo di trasformazione), pubblicata a Mosca nel 1920. Nel ’21 l’opera era sconosciuta in occidente: fu tradotta in Germania, ‘Ökonomik der trasformations periode’, nel febbraio 1922. Nel fascicolo 4-6 del febbraio 1921 della rivista “Sowjet” era apparso un articolo di Arkadj Maslow (che era di origine russa) sul libro di Bucharin, prima recensito da “Rassegna comunista”, n. 3, 15 maggio 1921, e poi riprodotto sulla medesima rivista: n. 6, 15 luglio, pp. 261-269 e n. 7, 30 luglio 1921, pp. 309-318. E’ dunque probabile che sulla esposizione del Maslow si basasse Bordiga, non sul testo di Bucharin. Nel 1922 l’opera di Bucharin fu pubblicata in gran parte (i primi cinque capitoli) su “Rassegna comunista”, dal n. 24 di giugno al n. 30 di ottobre, l’ultimo numero uscito della rivista. L’opera è stata ritradotta in lingua italiana presso le edizioni Jaca Book, Milano, 1971 (reprint 1988). Nel n. 4-5, luglio-ottobre 1967, di “Critica marxista”, pp. 271-326, sono state pubblicate le annotazioni in margine di Lenin al testo buchariniano (31 maggio 1920), non comprese nelle opere complete di Lenin]