“Nel 1917-18 la separazione profonda, abissale era ancora quella che divideva ‘interventisti’ e ‘non interventisti’, anche ovviamente se si distingueva tra coloro che avevano avuto incertezze all’inizio (e poi erano tornati sui propri passi) e coloro che erano passati definitivamente invece al servizio di quella che veniva definita la “borghesia imperialista e guerrafondaia”. Questo criterio di divisione sopravanzava ogni altro e, nella particolare situazione italiana, in un certo qual senso, ‘attenuava persino la tradizionale divergenza tra la corrente rivoluzionaria e la corrente riformista: questo, proprio questo è il punto che occorre capire’. La resistenza di Serrati e dei capi della corrente rivoluzionaria del Partito socialista italiano all’espulsione dei riformisti dal partito non derivò unicamente (e nemmeno, crediamo, principalmente) da calcolo «opportunistico», da un gioco inteso a mantenere il potere nel partito ma ‘dalla convinzione sincera e profonda che era in Serrati e negli altri capi della corrente rivoluzionaria che, in fondo, i riformisti italiani non avevano «tradito», non erano passai al servizio della «borghesia guerrafondaia e imperialistica»’. Diremo di più: diremo che persino Bordiga che era sempre più convinto della necessità della separazione tra riformisti e rivoluzionari, (affinché gli uni dessero vita la partito comunista, gli altri al partito socialista riformista) c’era, tuttavia, nei confronti di uomini come Turati e come Treves (lo abbiamo sentito più volte esprimersi in questo senso) un rispetto morale che certamente mancava in Lenin e nei bolscevichi. Ci riferiamo, soprattutto, all’anno 1919: poi le cose presero un altro corso. Sarebbe interessante riuscire a capire per quali motivi Lenin, che pure tenne nel massimo conto questi sentimenti quando si trattò di giudicare i socialisti svizzeri o scandinavi (in fondo anche i socialisti francesi) assunse, invece, una posizione particolarmente aspra proprio nei confronti dei socialisti riformisti italiani che la meritavano di meno. Probabilmente alla base di quest’atteggiamento vi fu non un errato giudizio ma più probabilmente, un errato calcolo politico. Egli pensò, cioè, che in quei paesi il movimento era più arretrato ed era, quindi, indispensabile, ancora per un certo tempo, fare i conti con l’influenza dei riformisti, mentre in Italia, essendo il movimento più avanzato, sarebbe stato più facile costituire subito un partito rivoluzionario, espellendo i riformisti e distruggendo rapidamente la loro influenza sulle masse lavoratrici. Fu quella opinione di Lenin (e, poi, della costituenda I.C.) filtrata già nel 1919 in Italia, che orientò i nuclei estremisti del PSI – decisamente, oramai – verso la scissione e la costituzione di un nuovo partito: nel 1919 solo Bordiga, nel 1920 anche Gramsci e qualche massimalista di sinistra. Perciò è nel 1919-20 la data di origine del PCI. Fu un calcolo politico errato ed ebbe come frutto la scissione minoritaria di Livorno. Naturalmente una volta costituitasi la frazione comunista questo aspro giudizio, questo modo corrosivo di guardare alla tradizione socialista italiana pervase tutta la frazione comunista, i massimalisti stessi che si erano appena staccati da Serrati. Ma non ci pare che si possa anticipare ed antidatare questa situazione di fatto al 1917. Anche se sin dal 1917 un certo preannuncio di questo atteggiamento era in Bordiga e in Gramsci (…)” [Giuseppe Berti, ‘Problemi di storia del PCI e dell’Internazionale Comunista (a proposito della ‘Storia del PCI’ di P. Spriano)’, Rivista Storica Italiana, Esi, Napoli, 1. 1970] [Lenin-Bibliographical-Materials] [LBM*]
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- Articolo pubblicato:15 Aprile 2016