“Il proletariato non è al di fuori della patria. La frase famosa così ripetuta e sfruttata in tutti i sensi che pronunciava, nel 1847, il Manifesto comunista di Marx e di Engels: «Gli operai non hanno patria», non era che un motto dettato dalla passione, una replica paradossale, e del resto poco felice, alla polemica dei patrioti borghesi, che accusavano il comunismo come distruttore della patria. E infatti, lo stesso Marx si affrettava a correggere ed a restringere il senso della sua formula, aggiungendo: «Certamente il proletariato deve prima conquistare il potere politico, deve erigersi a classe nazionale sovrana e costituirsi in nazione; e in questo senso egli appartiene ancora ad una nazionalità, ma non più come l’intende la borghesia». Sottigliezze assai oscure e vane assai. Come potrebbe il proletariato costituirsi in nazione, se la nazione non fosse già, se il proletariato non avesse con questa vivi rapporti? E se il ”Manifesto’ vuol dire semplicemente che una classe non ha patria finché della patria non è interamente padrona, che non avrà patria fino a che non abbia conseguito tutto il potere politico, esso deve allora proclamare per tutto il periodo dell’antica monarchia, dal timido sorgere dei Comuni fino alla Rivoluzione francese: «I borghesi non hanno patria». È la sostituzione di una serie di rivoluzioni astratte e artificiali alla profonda evoluzione rivoluzionaria, così spesso definita da Marx stesso con tanta forza. È la negazione sarcastica della storia medesima, di, ciò che la dialettica marxista ha di originale e di forte. È l’idea sacrificata all’espressione. (…)” (L’Armée Nouvelle, p. 436-438)] [Jean Jaurès, Il socialismo e la Guerra, L’Emancipatrice, Paris, 1918]