“Lo sguardo che Marx ed Engels rivolgono alla guerra è profondamente diverso da quello dei borghesi liberali loro contemporanei, i cantori della pace, un Cobden, un Lamartine. Forma organizzata delle violenza, ogni guerra è ai loro occhi al tempo stesso una conseguenza, un momento e una posta nella lotta delle classi: è espressione del livello delle forze produttive e mezzo che le trasforma, è continuazione della politica, naturalmente, ma anche atto mediante il quale possono trovarsi modificati i rapporti di classe. “La guerra è sviluppata prima della pace: modo in cui certi rapporti economici, come lavoro salariato, macchinismo, ecc., sono stati sviluppati dalla guerra e negli eserciti, prima che all’interno della società civile” – annotava Marx nel 1857 (1). Così è stato ancora per le guerre della rivoluzione francese e dell’Impero. Vale a dire che, come la violenza non è affatto “il peccato originale dell’umanità” – e si vedano a questo proposito le pagine sferzanti di Engels in polemica con Dühring – così la guerra in sé non è un male: è una distruttrice di ricchezze, indubbiamente, ma è proprio dell’essenza delle società classiste, e in particolare della società capitalistica, distruggere pur creando al tempo stesso; non vi è dubbio perciò che “la violenza abbia nella società…una funzione rivoluzionaria, che essa sia… la levatrice di ogni vecchia società gravida di una nuova, che essa sia lo strumento con cui si compie il movimento della società, e che infrange forme politiche irrigidite e morte” (2). Al limite, del resto, ogni guerra è una forma mascherata di guerra civile: per questo la guerra non può scomparire se non con la fine delle società classiste, con il trionfo del comunismo. Noi non siamo – dichiara Marx davanti al Consiglio generale dell’Associazione internazionale dei lavoratori, il 13 agosto 1867 – “gli apologeti della pace ad ogni costo”: il marxismo non è pacifismo, e ogni guerra dev’essere pesata sulla bilancia della lotta di classe. Che giudizio dare, allora, delle guerre del loro tempo, quel terzo quarto del secolo XIX in cui la rivoluzione industriale si afferma, mentre “uno spettro” – lo spettro del comunismo – “si aggira per l’Europa”? Il proletariato, attore storico privilegiato del processo rivoluzionario che condurrà al comunismo l’intera umanità, può esistere pienamente solo su scala mondiale. In ciò consiste il fondamento stesso dell’internazionalismo marxista: “Proletari di tutti i paesi, unitevi!”. Questa necessaria universalità sembrerebbe colpire di discredito tutte le guerre preparate dalle classi dirigenti, decise da Stati che in esse scorgono il modo per affermare il loro potere di manipolazione e per rafforzare la loro oppressione sui lavoratori; insomma, nel secolo del ‘Manifesto’ dovrebbero esserci solo guerre ingiuste. In realtà Marx ed Engels non ragionano così: gli interessi di classe sono più complessi. Gli operai – e i socialisti – devono imparare a capire gli interessi comuni dell’intero proletariato, e giungere a caratterizzare dunque, in ogni caso, ogni guerra. Questo implica che, ad ogni tappa, questi interessi possono essere determinati e confrontati non secondo le circostanze che determinano immediatamente le guerre, ma secondo i loro fini. Ora, la costituzione di quelli che Engels chiama “i grandi Stati nazionali” è all’ordine del giorno nel secolo XIX: “Solo questi Stati rappresentano la normale costituzione politica della borghesia dominante in Europa e sono al tempo stesso una condizione preliminare indispensabile per la formazione di un’armoniosa collaborazione internazionale dei popoli, senza di cui non è possibile il dominio del proletariato” (3). Anche se dev’essere forgiato per mezzo della guerra, un grande Stato nazionale è dunque una formazione necessaria per il progresso stesso della civiltà e per l’affermazione del proletariato. Le rivoluzioni del 1848 ne hanno fatto apparire la necessità sulla scena europea per quel che riguarda le nazioni definite da Marx “rivoluzionarie”, e che Engels – riprendendo la terminologia hegeliana – chiama “nazioni storiche” (4): l’Italia, la Germania, la Polonia” [Madeleine Reberioux, ‘Il dibattito sulla guerra’] [(in) ‘Storia del marxismo’, Volume II: ‘Il marxismo nell’età della Seconda Internazionale’] [(1) K. Marx, ‘Introduzione’ (1857) a ‘Per la critica dell’economia politica’, la si veda in Id., ‘Il Capitale. Critica dell’economia politica’, libro primo, Torino, 1973, p. 1171; (2) F. Engels, Anti-Dühring’, in K. Marx F. Engels, Opere, Roma, 1970 sgg., vol. 25, p. 176; (3) F. Engels, ‘Violenza ed economia nella formazione del nuovo Impero tedesco’, Roma, 1951, p. 10 (‘Neue Zeit’, XIV, 1896, n. 1); (4) Cfr. G. Haupt C. Weill, ‘Marx et Engels devant le problème des nations’, in “Cahiers de l’Isea’, serie S, ottobre 1974 (trad. it. in ‘Studi storici’, 1974, n. 2]