“Un tentativo di mettere in crisi sia il modello storiografico di ascendenza gramsciana sia quello elaborato dagli epigoni italiani degli storici dello sviluppo, la cui antitetica valenza politica contrasta singolarmente con la sudditanza di fatto del primo dal secondo, è stato fatto di recente da S. Merli (1). Rifiutando l’artificiosa e sterile ripartizione dei compiti tra storiografia economica e politica, egli ha proposto una riconsiderazione globale della problematica in fatto di protocapitalismo italiano, senza però riuscire ad elaborare categorie interpretative che costituiscano davvero una risposta agli interrogativi sul ‘quando’ e il ‘come’ è nato e cresciuto l’assetto capitalistico del nostro paese. La sua proposta metodologica più interessante è quella dell’assunzione di un modello interpretativo, il Lenin de ‘Lo sviluppo del capitalismo in Russia’, desunto dall’analisi di un contesto tutto diverso da quello inglese, e capace quindi di fornire una strumentazione più adeguata alla problematica di un paese ‘second comer’, consentendo l’abbandono dell’irrisolvibile antitesi sviluppo-arretratezza. E se la ricerca del Merli non ha tenuto fede ai suoi propositi iniziali, ciò va imputato per molta parte all’uso alquanto epidermico dell’apparato concettuale del giovane Lenin. L’indagine sul capitalismo russo nacque sulla scia della polemica politica antipopulistica, dell’esigenza di contrastare la tesi della “via russa al socialismo” scaturita dalla ricognizione empirica di una realtà sociale prevalentemente agraria e artigiana. Il problema analitico affrontato da Lenin fu dunque quello di rintracciare gli indizi di una trasformazione capitalistica già in atto malgrado la preponderanza statistica di un’economia agricola e semifeudale; la sua soluzione fu quella di privilegiare l’analisi dei rapporti di classe, partendo dai sintomi di disgregazione sociale delle campagne, che lasciavano intravedere il passaggio ad una diversa fase storica, contrassegnata dal delinearsi di nuove formazioni sociali e nuovi rapporti produttivi, di tipo appunto capitalistico. In questo quadro, il fatto che la sua indagine prenda le mosse proprio dall’agricoltura va considerato in tutto il suo valore emblematico; essendo infatti l’agricoltura il luogo primario dei rapporti produttivi precapitalistici, il manifestarsi di fenomeni disgregativi era assai più sintomatico della profondità di penetrazione di nuovi rapporti produttivi di quanto non potesse esserlo una presenza ancora quantitativamente minoritaria della grande industria. La fecondità di questo procedimento consiste non tanto nell’aver individuato delle piuttosto problematiche linee generali di tendenza – la possibilità cioè di una del tutto ipotetica omogeneizzazione, raggiungibile nel tempo, delle esperienze tardive a quelle precoci – quanto dell’aver fornito gli strumenti atti a un’interpretazione autonoma delle forme di transizione al modo di produzione capitalistico e all’elaborazione di una tipologia di queste forme” [Andreina De Clementi, ‘Appunti sulla formazione della classe operaia’ (in) ‘La società inafferrabile. Protoindustria, città e classi sociali nell’Italia liberale’, Roma, 1986] (pag 222-223) [(1) S. Merli, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale. Il caso italiano: 1880-1900′, voll. 2, Firenze, 1972] [Lenin-Bibliographical-Materials]  [LBM*]