“Già nel “Manifesto del Partito Comunista”, Marx parlava delle crisi, del fenomeno grandioso di cui, volente o nolente, l’economia politica doveva prendere coscienza: “Sono decenni ormai che la storia dell’industria e del commercio è soltanto storia della rivolta delle forze produttive moderne contro i rapporti moderni della produzione, cioè contro i rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di esistenza della ‘borghesia’ e del suo dominio. Basti ricordare le crisi commerciali che con il loro periodico ritorno mettono in forse sempre più minacciosamente l’esistenza di tutta la società borghese. Nelle crisi commerciali viene regolarmente distrutta non solo una gran parte dei prodotti ottenuti, ma addirittura gran parte delle forze produttive già create. Nelle crisi scoppia un’epidemia sociale che in tutte le epoche anteriori sarebbe apparsa un assurdo: l’epidemia della sovrapproduzione. La Società si trova all’improvviso ricondotta ad uno stato di momentanea barbarie; sembra che una carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato tutti i mezzi di sussistenza; l’industria, il commercio sembrano distrutti. E perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive che sono a disposizione non servono più a promuovere la civiltà borghese e i rapporti borghesi di proprietà; anzi sono divenute troppo potenti per quei rapporti e ne vengono ostacolate, e appena superano questo ostacolo mettono in disordine tutta la società borghese, mettono in pericolo l’esistenza della proprietà borghese”. Si noti come in questo passo Marx non solo descriva brevemente l’andamento delle crisi commerciali, ma sottolinei la ragione ultima generale e più profonda della loro presentazione (“… la rivolta delle forze produttive moderne contro i rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di esistenza della ‘borghesia’ e del suo dominio…”). Il rilievo dato da Marx al periodico ritorno delle crisi (che mettono sempre più minacciosamente in forse l’esistenza della società borghese) ci dà modo di porre in evidenza un’altra caratteristica delle crisi economiche che non viene generalmente considerata dalla teoria tradizionale tecnico-astratta: la crescente gravità delle crisi e il loro collegamento nel lungo ciclo storico del capitalismo. E questo sembra un principio acquisito, ma non è tale in realtà. Notate, per esempio, l’uso dello stesso termine “grande crisi” (“grande depressione”) impiegato tante volte nella storia. Si è così parlato di “grande crisi” dopo le guerre napoleoniche; si è detta “grande crisi” quella del 1874 (scoppiata in Inghilterra e ricordata “come quello che è avvenuto quando sono state costruite le ferrovie”); si è parlato poi di “grande crisi” soprattutto negli anni 1929-30 e seguenti. Il termine “grande crisi” è stato quindi sempre successivamente allargato nel senso che le crisi sono andate via via sviluppandosi in ampiezza e gravità. Se di tale crescente gravità vogliamo cogliere un indice significativo, possiamo riferirci a quello della disoccupazione: nel 1860, la crisi aveva reso disoccupati in Inghilterra il 5% dei lavoratori precedentemente impiegati; nel 1865, i disoccupati sono aumentati all’8%; nel 1882-83, al 12%; dal 1900 al 1920, la percentuale media è scesa aggirandosi sul 10%; ma nel 1921 siamo già al 17% e nel 1929-30 al 22-23%. Per quanto poi riguarda la prospettiva di grandi crisi future, vi leggerò un breve passo di un economista inglese, il Sayers, che considera la possibilità che si presenti una crisi negli Stati Uniti d’America: “Gli Stati Uniti hanno 140 milioni di abitanti di cui 60 milioni risultano occupati nei mesi più attivi (tre volte la cifra del Regno Unito). Tra i beni prodotti annualmente, abbiamo 90 milioni di tonnellate di acciaio, 600 milioni di tonnellate di carbone, 4 milioni di automobili e 800 mila case. Una depressione paragonabile a quella del 1929 significherebbe un aumento della disoccupazione per 20 milioni di unità, il che equivarrebbe a lasciare senza impiego l’intera popolazione occupata della Gran Bretagna”. In altri termini la percentuale di mano d’opera che resterebbe disoccupata in un’eventuale grande crisi – che viene peraltro prevista in modo piuttosto ottimistico – sarebbe del 33% dell’occupazione complessiva degli Stati Uniti” [Giulio Pietranera, La teoria delle crisi capitalistiche, Economia politica, XIV Lezione] [(in) ‘Storia economica. Lezioni, Roma, 1954-1955]