“E’ nella terza edizione del noto saggio ‘In Memoria del Manifesto dei Comunisti’ (che segue, nel 1902, le due edizioni italiane del 1895 e la precedente versione francese uscita nello stesso anno nel ‘Devenir social’), che Antonio Labriola, il maggior teorico italiano del marxismo di quei tempi, pubblicò quella “traduzione decente” del ‘Manifesto’ che aveva preannunciato nel 1892 in una lettera ed Engels. La paternità della traduzione, messa in dubbio già da Michels, è attribuita da Cagnetta (la cui opinione è ripresa da Andréas) alla moglie dello studioso, Rosalia Carolina De Sprenger, sulla base di informazioni raccolte da ambienti socialisti napoletani; Dal Pane aveva sostenuto che “dubbi non hanno motivo di esistere, sia per l’esplicita confessione del L. [si riferisce alla lettera ad Engels sopra ricordata] sia per il contesto e lo stile della traduzione, sia per altre ragioni che non è qui il caso di enumerare”. Contro le ipotesi e le voci che vogliono togliere a Labriola la paternità della traduzione sta il solo fatto certo: lo studioso napoletano ha fatto propria questa versione, ponendola in appendice al suo saggio, senza premettervi alcuna nota di attribuzione né alcuna presa di distanze; segno che, chiunque ne sia stato il traduttore materiale, l’interpretazione data al testo marxiano coincideva con la concezione che del marxismo aveva Labriola. Si può affermare che la traduzione sia stata condotta sull’edizione tedesca del 1890, di cui tuttavia non riporta le note (cioè la parte più innovativa); il traduttore aveva certamente presenti anche altre versioni dell’opera, come possiamo inferire dalla caparbietà con cui Labriola cercò di procurarsi le diverse edizioni e traduzioni del ‘Manifesto’ e come è testimoniato da riscontri testuali” [Michele A. Cortellazzo, La diffusione del Manifesto in Italia alla fine dell’Ottocento e la traduzione di Labriola. (in) ‘Cultura neolatina, N° 1-2, 1981]