“I problemi della povertà in generale furono sempre considerati in Bologna nel periodo qui pertrattato e in ultimo anche quelli della povertà che si qualifica come ‘pauperismo’. In tutti i casi la povertà era considerata come un male, da alcuni come un male insito nella natura dell’uomo e della società, da altri come un male che richiedeva un rimedio. Quindi le ricerche di una terapia. Ma nel primo caso, quello della povertà in generale, il rimedio stava nella beneficenza, nel caso del pauperismo invece si ricercavano dei rimedi più efficienti. Il problema dei poveri e dei medicanti veniva affrontato, ad esempio, in un manoscritto del 1773 (18) sotto due punti di vista: quello di obbligare al lavoro i poveri validi e quello di assistere adeguatamente gli inabili. Il problema dei poveri – si legge nel manoscritto – era del tutto trascurato. Di qui la necessità di affrontare senza indugi la questione. Di qui il progetto di cui ci occupiamo. Si trattava in primo luogo di eliminare la mendicità e questo si sarebbe ottenuto mediante una proibizione generale di mendicare e di fare elemosine individualmente. Si dovevano poi reperire i fondi indispensabili per una riforma della beneficenza. Questa avrebbe dovuto essere di carattere pubblico e perciò i denari, gli avanzi delle tavole e quanto altro si usava donare ai poveri dovevano essere versati ad una cassa amministrata dal pubblico, una specie di congregazione di carità. Nei poveri poi si dovevano distinguere i ‘pigri’ dagli inabili, dagli ammalati e dai pazzi. I primi, quando si rifiutassero di lavorare in libertà, dovevano essere rinchiusi a spese dell”opera’ ed essere costretti a qualche lavoro. Gli inabili e gli ammalati invece dovevano essere mantenuti a spese della cassa degli ospedali o nelle proprie abitazioni secondo i casi. Il piano prevedeva un complesso abbastanza interessante di istituzioni sociali da promuovere e da sorreggere: soccorsi e assistenza alle partorienti e ai bambini, scuole di leggere e scrivere e di far conti per i fanciulli e per le fanciulle separatamente, botteghe e provvedimenti vari per l’istruzione professionale (…). I fondi per l’attuazione del progetto dovevano essere ricavati, come si è detto, dalle elemosine convogliate nella cassa dell’istituto. Qualora questi non fossero stati sufficienti, il sovrano avrebbe dovuto imporre una tassa da applicarsi ai più facoltosi in proporzione ai loro averi. Si trattava dunque di un inizio di assicurazione sociale. Ma nel manoscritto citato affiora anche una tesi, che limita la portata del principio esposto come base della trattazione. Il Marx aveva considerato l’eccesso di popolazione come un fatto inerente al sistema capitalistico, in quanto influente sul tasso dei salari. Nel periodo qui pertrattato ‘una certa discreta miseria’ era considerata ‘opportuna per avere chi presti gli uffizj più faticosi, ed abbietti, che non mai per elezione, ma solo per indigenza vengono praticati’ (23). Il diffondersi della concezione liberistica diede una fisionomia marcata alla tesi che solo la libertà di lavoro e di intrapresa avrebbe, accrescendo la produzione e le occasioni di impiego, costituito un argine valido contro le cause della miseria” [Luigi Dal Pane, Economia e società a Bologna nell’età del Risorgimento. Introduzione alla ricerca, 1969] [(18) ‘Compilazione di un Progetto’, cit. (…); (23) Qualora mancassero del tutto i poveri. “Chi più allora farebbe le somme fatiche del povero facchino? Chi venderebbe quelle misere robe, che a scarsissimo utile possono essere solo vendute? Chi raccoglierebbe le immondezze? Da chi più sarebbero fatte e molte altre vili, e povere operazioni, che sono necessarie?”. Dal ms. cit.: ‘Compilazione di un Progetto’, p. 3]
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- Articolo pubblicato:12 Luglio 2013