“Se la rivoluzione è la forma attualizzata, potenziata ed acuita della lotta tra classi sociali che, pur nascendo dall’insurrezione spontanea e disordinata di grandi masse popolari, ha sempre come fine un profondo mutamento strutturale di tutti gli ambiti della vita umana, proprio questa pretesa di voler creare qualcosa di fondamentalmente nuovo presuppone una rottura quasi sempre violenta con la tradizione. In questo senso, vere e proprie rivoluzioni si sono avute soltanto a partire dal quella francese, poiché tutte le guerre civili, le rivolte e le insurrezioni precedenti sono caratterizzate dalla parzialità e ristrettezza degli obbiettivi: la cacciata dei signori dal potere o il miglioramento delle condizioni di vita di singoli gruppi di interessi, all’interno delle strutture date e consolidate di dominio (1). E’ qui, dunque che si inserisce il concetto di rivoluzione secondo Marx il quale affermava che “le rivoluzioni sono le locomotive della storia” attribuendo loro un ruolo fondamentale nella propulsione del processo storico. Sempre Marx scrive nella prefazione alla ‘Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico’, che le rivoluzioni hanno bisogno ‘in primo luogo’ di un “elemento passivo” intendendo con ciò la struttura concreta dei bisogni delle larghe masse del proletariato industriale. Queste ultime devono poi esse stesse inclinare verso la teoria rivoluzionaria e riconoscere in essa l’espressione adeguata dei propri bisogni, per mettersi finalmente in moto. Ma, ‘in secondo luogo’, come Marx ed Engels non hanno mai cessato di ripetere, una rivoluzione sociale, per vincere, dovrebbe essere una rivoluzione europea, avere cioè lo stesso carattere internazionale che recano il capitale e la concentrazione capitalistica da un lato, e il proletariato coi suoi interessi vitali dall’altro. ‘In terzo luogo’, per quanto riguarda la Germania, occorreva preparare dapprima il terreno per la futura rivoluzione sociale, secondo Marx ineluttabile, aiutando prima la debole borghesia Tedesca a raggiungere la sua prima vera vittoria politica. ‘Il quarto presupposto’ della rivoluzione proletaria è una crisi economica non latente bensì acuta e palese, come quella che nel 1847 preparò la rivoluzione del 1848. (…) ‘In quinto luogo’, infine, nel XIX secolo le rivoluzioni realmente tali – il che significa per Marx ed Engels sociali – sono possibili solo nei paesi di più avanzato sviluppo industriale, i soli in cui sia presente un vero proletariato capace di non perdersi più in “rivoluzioni” sul tipo di quella di luglio o di febbraio in Francia, che, lasciando intatte le strutture economiche della società, assomigliano a colpi di Stato. Due sono quindi i punti principali in cui si articola il “concetto classico di rivoluzione” marxiano. In primo luogo: la rivoluzione sociale proletaria è, dal punto di vista storico – mondiale, inevitabile; in secondo luogo: il momento spazio temporale dello scoppio delle rivoluzioni sociali, così come il loro destino, è concretamente determinabile soltanto sulla base di una precisa analisi preliminare delle condizioni economiche, storiche, culturali e sociali da cui esso dipende. Situazioni rivoluzionarie sono, per Marx ed Engels, solo quei momenti caratterizzati dalla presenza di un proletariato cosciente, unito ed organizzato; capace, cioè, di cogliere, sulla base di crisi economiche acute, la struttura antagonistica delle forme sociali capitalistiche e di operarne la negazione rivoluzionaria (2)” [Anna Maria Curcio, ‘Sul concetto di rivoluzione’ (in) Laboratorio di sociologia, quaderni di studi e ricerche, Roma, 1. 1979, p. 97-103] [(1) Kurt Lenk, Teorie della rivoluzione, 1976, pag. 16; (2) Lenk, op.cit., pag. 68]