“E’ la materia, questa, trattata nelle celebri pagine dell’Introduzione ai ‘Grundrisse’, scritti tra il 1857 ed il 1858: la teoria poteva solo procedere per astrazioni, perciò contenenti caratteri generali e comuni, quali la produzione, la distribuzione e così di seguito. Ma tali generalizzazioni venivano determinate dal carattere della contraddizione principale, “quella che ingloba e subordina a sé tutte le altre”: nella fase di sviluppo contemporaneo quella tra capitale e forza-lavoro e, proposta in altri termini, tra sviluppo sociale delle forze produttive e appropriazione del plusvalore. (…) Nei ‘Grundrisse’, lo schema di riferimento è quello esposto nel ‘Manifesto’, verificato, tuttavia e arricchito dalla critica delle categorie dell’economia classica. Il processo di autovalorizzazione del capitale si manifesta attraverso la espansione costante delle forze produttive, il rinnovamento, dunque dei metodi di produzione attraverso l’utilizzazione della scienza, l’aumento dei fabbisogni e dei consumi; nei rapporti sociali propri della società borghese, questo processo implica la concentrazione del capitale e delle forze di lavoro, l’assoggettamento della disciplina di fabbrica, l’immiserimento relativo ed assoluto delle masse operaie. Lo sviluppo del capitale costante comporta la diminuzione della quota destinata a quello variabile, dal momento che il costo delle macchine deve essere sempre inferiore, per risultare conveniente al capitalista, a quello della forza-lavoro sostituita (K. Marx, Storia delle teorie economiche, voll. 3, 1955, vol II, p. 609 e seg.). (…) Lo sviluppo stesso del capitalismo, l’aumento del capitale costante a spese di quello variabile, e non già la legge sulla popolazione, stavano alla base della formazione di un esercito industriale di riserva e del livello decrescente dei salari. Marx respinge, dunque, la teoria elaborata da A. Smith, secondo la quale l’introduzione delle macchine serviva ad abbreviare e facilitare il lavoro, per accettare in parte quella di Lauderdale, secondo cui il capitale costante sostituiva il lavoro. Di tale teoria egli, rifiutava la conclusione, secondo cui il capitale costante creava valore, poiché in tal modo si confondeva tra valore d’uso e valore di scambio delle macchine e non si coglieva il ruolo del capitale costante nel processo di produzione capitalistico. Doveva infatti essere distinta, a giudizio di Marx, la macchina in sè, il mezzo per la trasformazione della materia in prodotto, la condizione tecnologica della produzione, che assorbiva le conquiste della tecnica e che, pertanto, inglobava in sè un valore che cedeva al prodotto e che veniva reintegrato mediante l’ammortamento. Per valore di scambio del capitale fisso, per contro, doveva essere inteso l’uso capitalistico delle macchine, la trasformazione dello strumento in capitale costante in vista dello sfruttamento del plusvalore e dell’assoggettamento della forza-lavoro (K. Marx, Lineamenti fondamentali dei critica dell’economia politica, “Grundrisse”, Voll. 2, 1977 , op.cit, p. 701 e seg.). “E’ nella produzione del capitale fisso che i capitale si pone come fine se stesso”, poiché soltanto in tal modo era possibile incrementare le forze produttive e diminuire il valore delle merci destinate al sostentamento della forza lavoro. Lo sviluppo stesso del capitale costante risultava funzione del livello generale del processo di accumulazione, della possibilità, vale a dire, di dirottare risorse dalla produzione  di beni di consumo immediato a quella di beni capitali. Il tempo di lavoro complessivo dedicato alla creazione di capitale costante stava a quello destinato alla produzione di beni di consumo come il tempo di lavoro eccedente stava a quello necessario: sotto tale profilo, il capitale costante “non solo nella sua quantità ma anche nella sua qualità” risultava indice certo del grado di sviluppo di una economia” (Ibid, pp. 719, 720)” [Piero Bolchini, Tecnica e rapporti di produzione in K. Marx’, (in) ‘Tecnica ed economia nell’Ottocento’, 1980]