“Minacciata dall’affondamento nel proletariato e dall’annientamento da parte della grande borghesia, la piccola borghesia non può permettersi in quanto classe alcuna autorappresentazione e fa dell’armonizzazione dei contrasti di classe il suo principale compito ideologico. “Si crede piuttosto che le condizioni ‘particolari’ della propria liberazione sono le condizioni ‘generali’ solo all’interno delle quali la moderna società può essere salvata e la lotta di classe evitata” (Marx, Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, MEW, vol. 8, pag. 141, trad. it., pag. 43 e s.). La lotta dei ceti medi contro la borghesia è conservatrice e reazionaria; si tratta non della “sanguinosa tragedia fra lavoro salariato e capitale; ma del dramma lamentevole e ricco di prigionia fra debitore e creditore” (Marx, La lotta di classe in Francia dal 1848 al 1850, MEW, vol. 7, pag. 63, trad. it. pag. 85). Essi sono però rivoluzionari “in vista dell’imminenza del loro passaggio nel proletariato, essi non difendono così i loro interessi presenti bensì quelli futuri e abbandonano la loro posizione per mettersi a fianco di quella del proletariato” (Marx-Engels, Manifesto, MEW, vol 4, pag 472, trad. it., pag. 114). L’ambivalenza politica e sociale dei ceti medi è in questo modo fondata economicamente. Sebbene gli artigiani indipendenti e i piccoli contadini sono produttori di merci, essi non appartengono alla categoria dei lavoratori produttivi né a quella dei lavoratori improduttivi, poiché essi non debbono vendere la loro forza lavoro: né contro denaro in quanto denaro (lavoro improduttivo) né contro denaro in quanto capitale (lavoro produttivo) (Marx, Teorie sul plusvalore, MEW, vol. 26, I, pag 365 e ss., in particolare pag. 382, trad. it., vol. I, pag 606, in particolare pag 608). Questa determinazione poi viene resa più complessa dall’egemonia del sistema capitalistico di produzione: “E’ possibile che questi produttori che lavorano con propri mezzi di produzione, non riproducano soltanto la propria forza lavoro, ma creano plusvalore, in quanto la loro posizione permette loro di appropriarsi del loro surplus di lavoro o di una parte dello stesso (dato che una parte viene loro sottratta sotto la forma delle imposte etc.)…Il contadino indipendente o l’artigiano viene scisso in due persone. Come proprietario dei mezzi di produzione è un capitalista, come operaio è il salariato di se stesso. Come capitalista si calcola anche il suo stipendio e trae profitto dal proprio capitale, cioè sfrutta se stesso come operaio salariato e calcola nel plusvalore il tributo che il lavoro deve al capitale” (1, cit., pag. 383, trad. it., vol. I, pag 608). Questo sussumere i produttori non capitalisti sotto la determinatezza del rapporto di capitale ha come conseguenza che esso tanto poco quanto i capitalisti può riscuotere nelle propria azienda il plusvalore prodotto. Poiché la massa del plusvalore che esso può utilizzare dipende dal saggio generale di profitto. “Risalta qui in modo assai convincente che il capitalista in quanto tale è soltanto funzione del capitale, l’operaio funzione della potenza di lavoro. V’è poi la legge che lo sviluppo economico ripartisca la funzione tra differenti persone; e l’artigiano o il contadino che producono con i propri mezzi di produzione, si trasformano a mano a mano o in piccoli capitalisti che sfruttano anche lavoro estraneo, o verranno privati dei loro mezzi di lavoro (…). Questa è la tendenza nella forma societaria nella quale predomina il modo di produzione capitalistico” (1, cit., pag. 384, trad. it., vol. I, pag. 609)” [Michael Mauke, La teoria delle classi nel pensiero di Marx ed Engels, 1973] (pag 51-52-53)