“Ma indipendentemente da tutte queste forme di opportunismo, pensiamo sia il caso di porre la concezione marxista della pauperizzazione nei suoi giusti e validi termini scientifici e di sottrarla a tante contaminazioni. Già l’economista sovietico Arzumanian, nel “Kommunist” n. 10, 1956, ha dato un’interessante interpretazione del problema per cui sarebbe una tesi sbagliata sostenere che la classe operaia riceve un salario reale più basso di anno in anno. Se ciò fosse vero non sarebbe vera la legge marxista del valore che riguarda anche la forza-lavoro in quanto merce e che agisce anche sul movimento del salario reale. Il salario reale è, appunto, il prezzo della forza-lavoro, e malgrado tutte le oscillazioni determinate da fattori di mercato o da rapporti di forza, tende ad adattarsi al suo valore. Il valore della forza-lavoro, però, non è statico ma cambia nel corso storico e quindi il salario reale, che è minore del valore della forza-lavoro, non lo realizza pienamente. In questa legge economica di non corrispondenza del valore della forza-lavoro risiede una premessa della teoria dell’Impoverimento. Di conseguenza bisogna analizzare concretamente il valore della forza-lavoro e non solo il movimento dei salari reali: movimento che non ci spiega l’aspetto qualitativo del problema. E’ naturale che storicamente il valore della forza-lavoro muti; ciò risiede nell’intimo processo di sviluppo della merce forza-lavoro stessa che non è una merce inanimata, bensì è una merce vivente, umana, che ha bisogno di sostentarsi e riprodursi. Con lo sviluppo del processo di produzione capitalistico, specie nelle sue forme tecniche, cambiano anche le condizioni di sostentamento e di riproduzione della forza-lavoro. Un padre operaio di cinquant’anni fa, ad esempio, doveva riprodurre un figlio operaio comune; oggi lo stesso padre deve riprodurre un figlio altamente specializzato che abbia tutta una serie di nozioni tecnico-scolastiche, poiché è questo il tipo di operaio richiesto dalla moderna produzione capitalistica. Le spese supplementari di istruzione e di ulteriore sostentamento incidono logicamente – aumentandolo – sul valore della forza-lavoro. Ciò significa, forse, annullamento dell’impoverimento del padre operaio? E’ assurdo sostenere una simile interpretazione. Si dirà che il salario reale già esprime questo fenomeno; ma ciò è vero solo in parte, poiché solo in ritardo – cioè solo al termine della rotazione e della riproduzione del capitale – il salario tende a realizzare il prezzo del valore della forza-lavoro. Poiché, in realtà, si tratta della lotta tra capitale e lavoro per la realizzazione della forza-lavoro al suo valore. Il capitale cerca di mantenere i salari al minimo necessario ed i lavoratori tendono a realizzare il valore della forza-lavoro per soddisfare i bisogni determinati dalle condizioni sociali concrete. Ma la tendenza è a favore del profitto capitalista ed è in questo senso che Marx conclude che la tendenza è alla diminuzione e non all’aumento dei salari medi. Difatti più la forza-lavoro si avvicina a realizzare il suo valore in salari più aumenta il capitale costante nella “composizione organica del capitale” e, quindi, diminuisce il valore della forza-lavoro su di un mercato in cui aumenta l’offerta della merce lavoro. La disoccupazione è, appunto, un fattore di diminuzione del valore della forza-lavoro, è cioè un fattore di impoverimento. I revisionisti obiettano che ciò non accade nei paesi dove esiste il “pieno impiego”, nei paesi dove – secondo loro – non agirebbe la legge della pauperizzazione. Dimenticano di considerare un fattore economico importantissimo ai fini della valutazione della merce lavoro: l’esportazione dei capitali nelle zone arretrate. L’eccedenza di capitali, sotto l’aspetto che stiamo trattando, è il tentativo da parte del capitalismo di sfuggire alle conseguenze a cui andrebbe incontro impiegando tutto il capitale nella madrepatria. Se ciò avvenisse – per una ipotesi puramente astratta – la riproduzione del capitale sarebbe interrotta da una crisi mortale. Quindi, l’esportazione del capitale evita tale crisi ed indebolisce il valore della forza-lavoro con l’estrazione di un sovraprofitto dalle zone arretrate. In questo modo si ha una specie di equilibrio per cui si evita che la eccedenza di capitali provochi la crisi e, nello stesso tempo, il sovraprofitto alimenta la composizione del capitale nella misura più adeguata a mantenere basso il mercato della forza-lavoro. Non si crea eccessiva disoccupazione e non si permette che il salario si avvicini al valore della forza-lavoro. Anche su questo filo del rasoio su cui cammina il capitalismo esiste, quindi, l’impoverimento dei lavoratori. E’ quella “incertezza dell’esistenza” per i lavoratori che Engels volle abbinare al concetto di “miseria”. Del resto, Engels, rifiutando categoricamente la “legge ferrea della miseria”, ritiene – proprio come Marx con il concetto “aumento della massa della miseria”, contrabbandato dai vecchi revisionisti come “aumento della miseria delle masse” – che la legge della pauperizzazione assoluta sia un fenomeno inevitabile di accrescimento della miseria, al quale solo la lotta dei lavoratori può contrapporre una diga arginante. Ciò significa che i lavoratori possono frenare il fenomeno ma non annullarlo a loro favore. Ecco quindi – secondo la nostra opinione – che i concetti di pauperizzazione e miseria acquistano il loro significato dialettico inquadrandosi nella grande prospettiva marxista dei problemi generali dell’umanità. Si umanizzano, cioè, il loro rapporto diventa un rapporto di fenomeni economici con una “società” generale. Si elevano dalla semplice disputa economistica sui dati del consumo delle masse, per affrontare lo stesso concetto di “consumo” in tutti i suoi aspetti sociali. Affrontata secondo la concezione generale marxista la questione si capovolge. L’aumento assoluto del consumo delle masse lavoratrici diventa un sintomo di aumento della “massa della miseria”, poiché dimostra lo sviluppo della produzione capitalistica e la conseguente concentrazione dei mezzi di produzione. Aumenta la massa della ricchezza (mezzi di produzione) concentrata nei monopoli e nello Stato; aumenta, con la proletarizzazione effettiva, la “massa della miseria”, cioè il numero di coloro che non detengono le fonti della ricchezza (mezzi di produzione). Non solo aumenta – con la diminuzione degli strati intermedi detentori e proprietari dei mezzi di produzione – il numero dei nullatenenti, ma la condizione sociale di questi, il loro stato di non-proprietà in rapporto al vertiginoso aumento della massa della ricchezza è notevolmente peggiorato. Per il marxismo, la miseria – uscita dal primitivismo fisiologico in cui praticamente è fame – è sempre un rapporto sociale per cui si misura in confronto al volume della ricchezza sociale. Se poi analizziamo la qualità “sociale” del consumo stesso dei lavoratori troveremo che gran parte di questo è inutile e artificiale, determinato non da esigenze sociali ma da esigenze della produzione capitalistica (ad esempio TV, film, automobili, divertimenti americanizzati di massa, giornali, ecc.); questo tipo di consumo socialmente degradante è un aspetto qualitativo dell’aumento della “massa della miseria”. Per non parlare, poi degli enormi investimenti improduttivi ai fini del consumo sociale: produzione bellica, guerre, burocrazia, pubblicità, chiese, ecc. Quelli che non hanno mai compreso un rigo di Marx ritengono che pauperizzazione e rivoluzione siano così legate: aumenta la massa degli affamati e della fame, questa esplode e si ha la rivoluzione; se, invece, affamati e fame non aumentano, Marx si è completamente sbagliato e la rivoluzione non avviene più. Può darsi che queste caratteristiche vi siano nelle rivoluzioni borghesi dei paesi arretrati. Ma certamente non vi sono nella rivoluzione socialista prevista da Marx nei paesi avanzati, dove, appunto, le leggi economiche del capitalismo aumentano la massa della miseria sociale e diminuiscono quella della fame (…)” [Arrigo Cervetto, Sulla pauperizzazione. (Q
uestioni di economia), Azione Comunista, N° 32, 3 maggio 1958]