“E’ noto che l’esperienza delle rivoluzioni europee del ’48 segna un ‘discrimen’ nella riflessione marxiana sull’argomento, marca cioè il passaggio ad una seconda e più matura visione della rivoluzione proletaria e del suo rapporto con il compimento della rivoluzione borghese, che Marx svilupperà negli scritti del ’50-’52 sul ’48 francese e sul ’18 brumaio di Luigi Bonaparte’ (nota: ‘Per la periodizzazione della teoria marxiana della rivoluzione cfr. la Introduzione di F. Engels a ‘Lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850’, ora in K. Marx F. Engels, Il 1848 in Germania e in Francia, 1948, p. 128; D.B. Rjazanov, Marx ed Engels; 1969, pp. 45-46, 70-80; K. Korsch, Karl Marx, cit,, II parte, capitoli 9, 10 e 11; A. Rosemberg, Storia del bolscevismo, 1969, cap. I; L. Basso, Appunti sullo sviluppo della teoria rivoluzionaria in Marx e Engels, in ‘Neocapitalismo e sinistra europea’, 1969′). Fin dal primo abbozzo di una teoria della rivoluzione proletaria, comunque, è da notare come tale tematica si presenti strettamente intrecciata, presso Marx, alla tematica del compimento della rivoluzione borghese, e fino al ‘Manifesto’ la rivoluzione proletaria ci viene presentata come inestricabilmente svolgentesi dal seno degli sviluppi della rivoluzione borghese, ed in continuazione ad essa. Gli scritti marxiani pre-’48 mettono dunque  capo alla teoria della ‘rivoluzione permanente’, ovvero ad una visione dell’immediata trascrescenza ormai possibile e necessaria delle rivoluzioni democratico/borghesi in rivoluzioni proletarie e comuniste sostanzialmente senza soluzione di continuità. Il primo testo in cui questa visione è affacciata è la ‘Introduzione alla Critica della filosofia del diritto di Hegel’, apparsa sugli “Annali franco-tedeschi” il ’44, in cui è compiutamente abbozzato l’approdo del giovane Marx al comunismo. Troviamo qui una prima idea destinata a consolidarsi, svolgersi e precisarsi nella teoria marxiana della rivoluzione: il giudizio che a partire dalla metà dell’800 la borghesia continentale ed in particolare quella tedesca, che più direttamente interessa Marx, non sia più in condizione di condurre a termine una rivoluzione compiutamente borghese (non sia in grado, cioè, di costruire con un processo rivoluzionario la propria autonomia ed egemonia di classe su tutta la società e sia invece costretta da un lato a venire a patti con le vecchie classi ed i vecchi ceti pre-borghesi, dall’altro e nel contempo a scatenare il proletariato in un processo di autonoma e diretta lotta di classe anti-borghese) (…). Nel ‘Manifesto’ la visione della rivoluzione proletaria e del suo rapporto con la rivoluzione borghese non è fondamentalmente diversa. Certo, l’analisi è molto più matura ed articolata. Sicché l’impossibilità per la borghesia di essere ‘classe generale’ al modo delle rivoluzioni classiche (quelle inglese, americana e francese), viene correttamente ricondotta ad una teoria delle crisi sociali del modo di produzione capitalistico, viste però ancora prevalentemente come crisi economiche. De resto all’epoca il nucleo essenziale della concezione materialista della storia è già elaborato. La contraddizione fondamentale della formazione sociale borghese e delle formazioni sociali in genere è già individuata nel contrasto fra sviluppo delle forze produttive e sistema dei rapporti di produzione. Il proletariato si presenta come ‘classe generale’ proprio perché indotto, dal sistema capitalistico dei rapporti di produzione, a svilupparsi sempre più, a produrre sempre di più, ad immiserirsi sempre di più. E dunque le crisi economiche non fanno che accelerare la sua organizzazione di classe e la sua presa di coscienza della necessità di prendere il potere per eliminare i rapporti di produzione capitalistici. Le crisi economiche vengono previste come abbastanza ‘catastrofiche’ da rendere possibile ed imporre fin d’ora al proletariato, alle dimensioni attuali del suo sviluppo, l’instaurazione del proprio potere politico di classe, in un processo rivoluzionario prevedibilmente breve, nel quale il proletariato possa passare ‘ininterrottamente’ dall’appoggio alle ali più avanzate della borghesia per sospingere in avanti la rivoluzione democratica, alla conquista definitiva del potere politico. La democrazia borghese è vista come base politica da conquistare ed anzi indispensabile per il proletariato; ma solo perché come tale e fin d’ora essa sola gli consente la presa del potere. Si definisce, così, una visione della rivoluzione proletaria come ‘rivoluzione permanente’ ovvero come rivoluzione che Marx ipotizza essere in grado di superare rapidamente la fase democratica in un processo ininterrotto, soprattutto là dove la rivoluzione borghese è incompiuta o in ritardo e dove la borghesia non può più puntare ad assicurarsi una stabile egemonia. Tale è ad esempio il caso della Germania, e qui, pertanto, “Il partito comunista non cessa nemmeno per un istante di preparare e sviluppare fra gli operai una coscienza quanto più chiara è possibile dell’antagonismo ostile fra borghesia e proletariato, affinché i lavoratori tedeschi  possano subito rivolgere, come altrettante armi contro la borghesia, le condizioni sociali e politiche che la borghesia deve creare con il suo dominio, affinché subito dopo la caduta delle classi reazionarie in Germania, cominci la lotta contro la borghesia stessa. I comunisti rivolgono la loro attenzione soprattutto alla Germania perché la Germania è alla vigilia di una rivoluzione borghese, e perché essa compie questo rivolgimento in condizioni di civiltà generale europea più progredite, e con un proletariato molto più evoluto che non l’Inghilterra nel decimosettimo e la Francia nel decimottavo secolo; perché dunque la rivoluzione borghese tedesca può essere soltanto l’immediato preludio alla rivoluzione proletaria” (K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, p. 134). Nel corso stesso del ’48, però questo sc hema comincia a richiedere da Marx una revisione. In primo luogo appare più pregnante e viene messa meglio a fuoco la dimensione internazionale del sistema di dominio instaurato dal capitale. Viene quindi posto in rilievo non solo il carattere necessariamente internazionale della rivoluzione proletaria, ma anche la necessità che essa, per vincere, giunga fino al cuore del sistema capitalistico mondiale, esploda fin nei ‘punti più alti’ dello sviluppo capitalistico, ed in definitiva porti il proletariato al potere in Inghilterra: “Il crollo della borghesia in Francia, il trionfo della classe lavoratrice francese, l’emancipazione del proletariato in generale, è la parola d’ordine della liberazione europea. Ma il paese che trasforma intere nazioni in suoi proletari, che tiene stretto nelle sue braccia da gigante il mondo intero, che già una volta ha coperto col suo denaro le spese della restaurazione in Europa, il paese nel cui seno gli antagonismi di classe si sono spinti fino a raggiungere la forma più netta, decisa e spudorata, cioè ‘l’Inghilterra’, si leva come una roccia contro la quale le onde della rivoluzione europea s’infrangono, che affama la nuova società nel grembo materno. L’Inghilterra domina il mercato mondiale. Un sovvertimento nei rapporti economico-nazionali di ogni paese del continente europeo, e su tutta la sua estensione, senza l’Inghilterra, è come una tempesta in un bicchier d’acqua…La liberazione dell’Europa, sia essa la rivolta delle nazionalità oppresse per la loro indipendenza, sia essa la distruzione dell’assolutismo feudale, è quindi condizionata dalla vittoriosa insurrezione della classe operaia francese. Ma ogni maremoto sociale francese si spezza necessariamente contro lo scoglio della borghesia britannica, del dominio industriale e commerciale della Gran Bretagna sul mondo… I cartisti a capo del governo inglese – solo da quell’istante la rivoluzione sociale uscirà dal regno fumoso dell’utopia, per salire nel limpido cielo della realtà” (K. Marx F. Engels, Il Quarantotto, cit, pp. 180-181)”  [Giuseppe Vacca, Scienza Stato e critica di classe. Galvano Della Volpe e il marxismo, 19
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