“Per Marx, la crisi viene resa ‘possibile’ dal fatto che un’economia capitalistica è un’economia di scambio generalizzata nella quale produzione e consumo sono diventate due operazioni disgiunte. I beni non vengono prodotti in vista del consumo dei produttori, ma per essere venduti, rendendo necessario un intervento della moneta. A questo punto, possono sorgere degli squilibri, tanto più che la produzione per la vendita deve avvenire con un profitto sufficiente e secondo un ritmo abbastanza rapido, affinché il capitale investito nella produzione venga valorizzato. Ma ciò che, su questa trama generale, fa sì che le crisi appaiano necessariamente, e con una certa regolarità, è che, secondo la logica stessa dell’accumulazione del capitale, l’investimento è realizzato a livello di ogni impresa capitalistica individuale, nei settori di attività che appaiono, nella congiuntura immediata, in grado di far fruttare i più elevati tassi di profitto senza che, tuttavia, una ‘domanda effettiva’ venga assicurata per le merci prodotte. Non c’è, in effetti, nessun coordinamento ‘a priori’ nelle decisioni di investire, nessuna regolazione, se non ‘a posteriori’, ma spesso troppo tardi, sul mercato, che sanzioni gli errori di previsione. C’è qua, per Marx, l’effetto di una contraddizione del sistema economico tra il carattere ‘sociale’ della produzione ed il carattere ‘privato’ della proprietà dei mezzi di produzione e delle decisioni economiche. Infatti, per Marx, come per Malthus e Sismondi, la “legge degli sbocchi” è un mito; la realtà è che produttori e consumatori sono distinti e separati, e la maggior parte dei produttori (gli operai) non possono acquistare l’equivalente di quanto producono e devono, invece, fornire un sovrappiù o un ‘plus-valore’ ai capitalisti che li impiegano. Questo primo fattore si tradurrà con delle ‘sproporzioni’ della produzione rispetto alla domanda effettiva. E Marx è il primo autore ad avere stabilito in termini precisi le ‘condizioni dell’equilibrio’ in dinamica nei suoi famosi “schemi della riproduzione allargata” che mostrano, sulla base di un’analisi in due “sezioni” produttive che distinguono mezzi di produzione (sezione I) e mezzi di consumo (sezione II), la necessità di strette proporzioni tra l’espansione dei diversi settori dell’economia, e perciò tra l’investimento ed il valore della produzione totale (condizioni teoriche che non possono essere concretamente realizzate per i motivi già indicati). Quest’effetto si troverà rinforzato dal fenomeno di ‘sottoconsumo’ operaio (già analizzato da certi classici e ripreso più tardi dall’economista britannico Hobson nel 1889), poiché, per la natura stessa del sistema economico, l’imprenditore, che cerca di massimizzare il suo profitto, eserciterà una pressione costante sui salari che, per lui, rappresentano un costo ma che, dall’altra parte, sono da considerarsi un elemento (che diventerà sempre più importante nella storia del capitalismo man mano che si estenderà la massa salariale) della domanda effettiva. Vi è qui una contraddizione che, rinforzando l’effetto del fattore precedente, tenderà a produrre situazioni di ‘sovrapproduzione’, non rispetto ai bisogni più urgenti di buona parte della società (soddisfare questi bisogni non fa parte della logica dell’accumulazione capitalistica), ma rispetto alla domanda effettiva, cioè ‘solvibile’ e che si ‘realizza effettivamente'” [Bernard Rosier, Le teorie delle crisi economiche, 2003]