“Una classe che in fabbrica subisce il “dispotismo” non solo del padrone ma anche della “macchina” (infra, p. 16) è chiamata a essere protagonista di una grande rivoluzione politica e sociale. Conviene soffermarsi un attimo su quella che forse è la novità più radicale del ‘Manifesto’. Non è difficile sorprendere nell’ambito della tradizione liberale descrizioni lucide degli effetti di ottundimento prodotti dalla fabbrica capitalistica. Costretto alla ripetizione ossessiva di “poche semplicissime operazioni, spesso una o due”, l’operaio – osserva Smith – finisce col diventare “tanto stupido e ignorante quanto può esserlo una creatura umana”; egli non riesce a formarsi “un giudizio corretto persino su molti dei comuni doveri della vita privata”, per non parlare delle questioni politiche. Se c’è un rimedio a questo situazione, esso può essere apportato solo dall’alto e dall’esterno, da una borghesia illuminata o filantropa. Per il ‘Manifesto’, invece, l’ottundimento è solo un aspetto; per un altro verso, proprio la dura esperienza, quotidiana e collettiva, dello sfruttamento e del “dispotismo” in fabbrica può costituire il presupposto perché la classe operaia si configuri come il soggetto centrale della trasformazione. In Smith, l’operaio sembra persino smarrire le sue caratteristiche propriamente umane: diventa “non solo incapace di prendere gusto o parte a una qualsiasi conversazione razionale, ma anche di concepire un qualsiasi sentimento generoso, nobile e tenero”; per Marx il proletariato è il “cuore” stesso dell’emancipazione umana (Smith 1977, p. 770 (Libro V, cap. I, art II); Marx 1955f, p. 391). E’ una novità radicale che ancora oggi stenta a essere compresa.” [Domenico Losurdo, introduzione al ‘Manifesto del partito comunista’ di K. Marx e F. Engels, 2012]