“Una lettura della teoria marxiana del valore in termini affatto restrittivi persino sul piano meramente “quantitativo”, che non teneva conto cioè della distinzione tra “lavoro morto” e “lavoro vivo”, finiva col negare al capitale tecnico-lavoro morto alcun ruolo nel processo di formazione del valore, del plusvalore e quindi del profitto. Era questo, dunque un altro fronte delle “insufficienze” a volte, della “caducità” altre, della teoria del valore-lavoro prima della “crisi del marxismo” di fine secolo: un fronte sul quale si erano misurati in molti per colpire o superare o integrare o precisare Carlo Marx. La via intrapresa da Conigliani è, per molti aspetti, analoga a quella seguita dal suo “maestro” Ricca-Salerno qualche anno prima. Ricca-Salerno in un ampio studio sulla teoria del valore lavoro che fu anche premiato dall’Accademia dei Lincei, aveva tentato la coniugazione, per dirla con Antonio Labriola, della “Arbeits Werththeorie (Ricardo-Marx) con la scuola Jevons, Menger, Walras” (lettera di Antonio Labriola a Karl Kautsky, 29 agosto 1897) attraverso la determinazione di “un principio dinamico del valore” capace di superare sia la staticità del loriano ‘costo di produzione’, sia la naturalità psicologica della scuola edonista. E l’allievo modenese sembra muoversi nella stessa ottica. (…) Stupisce che Conigliani, un autore che ha scarsissima familiarità diretta con il testo e la lezione di Carlo Marx, introduca ed argomenti poi, e come “antinomia (…) la più importante”, una tesi evidentemente desunta dalla teoria della caduta tendenziale del saggio del profitto. E’ vero ch’egli pasticcia qua e là, a volte usa il concetto di ‘plusvalore assoluto’ come equivalente di ‘massa di plusvalore’, ma nella sostanza l’impianto della sua argomentazione, per lo meno in una delle sue parti, ha il referente immediato proprio nel tredicesimo capitolo del terzo libro de ‘Il Capitale’, con una corretta proposizione dei rapporti tra ‘capitale costante, capitale variabile, saggio del profitto, saggio del plusvalore’. Ma c’è di più, egli intende anche dare una risposta in positivo ad una delle “contraddizioni” marxiane che il giovane Loria aveva indicato già nei suoi famosi saggi del 1883, cioè alla supposta incapacità di spiegare l’esistenza d’imprese industriali con differente composizione organica di capitale e con uguale saggio di profitto. Non che tale risposta sia particolarmente soddisfacente, egli infatti attribuisce a Marx la tesi di una costanza del ‘saggio del plusvalore’ per ciascuna industria che non trova riscontro alcuno nella realtà testuale, ma contemporaneamente indica come via d’uscita quella delineata dallo stesso Marx nella sezione de ‘Il Capitale’ dedicata all’analisi della trasformazione del profitto in profitto medio. Sembra accettare, quindi, per lo meno nell’ambito di questa argomentazione, una rappresentazione del profitto in termini di plusvalore” [Paolo Favilli, Il labirinto della grande riforma. Socialismo e ‘questione tributaria’ nell’Italia liberale, 1990]