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“E’ un luogo comune che Marx abbia imparato l’economia politica dalla scuola classica inglese, e soprattutto dal suo massimo esponente David Ricardo. Per molti aspetti l’opera di Marx è effettivamente una continuazione logica e uno sviluppo della teoria classica. Ciò è vero soprattutto per il suo apparato concettuale – valore, plusvalore, composizione organica del capitale, saggio di profitto ecc. – molto del quale è già presente in Ricardo, almeno in forma embrionale. Eppure le conclusioni a cui arriva Marx in ‘Das Kapital’ sono lontanissime da quelle a cui arriva Ricardo nei ‘Principles’. Sia Ricardo che Marx videro nel processo di accumulazione del capitale la forza propulsiva dello sviluppo capitalistico, ma Ricardo ne derivò una specie di legge dell’entropia economica che conduceva al famoso “stato di stazionarietà”. L’accumulazione comportava l’impiego di un maggior numero di lavoratori e la messa a coltura di terre sempre meno fertili, con conseguente aumento della rendita di tutte le terre già coltivate. Poiché – secondo il punto di vista classico – i salari erano fissati al livello più basso compatibile con l’esigenza di incrementare la popolazione, l’aumento delle entrate dei proprietari terrieri poteva avvenire solo a spese del profitto dei capitalisti. Il logico sbocco di questo processo si sarebbe avuto quando il profitto fosse stato compresso a tal punto che i capitalisti o non potessero o non avessero più interesse a continuare l’accumulazione. Il progresso economico si sarebbe quindi arrestato per effetto di quelle che i classici consideravano come le due leggi naturali più tiranniche: la legge dei rendimenti decrescenti e la legge malthusiana della popolazione. Fu questa concezione che spinse Carlyle a bollare l’economia politica con l’appellativo di “scienza lugubre”. Naturalmente la concezione marxiana del processo di accumulazione e delle sue conseguenze era del tutto diversa. I capitalisti proteggono i loro profitti introducendo macchine migliori e più numerose, il che comporta un aumento della produttività del lavoro e un’espulsione dalla fabbriche di lavoratori, che vanno ad ingrossare l'”esercito industriale di riserva”. E’ quest’ultimo, che Marx chiama “sovrappopolazione relativa”, e non la pressione demografica di Malthus che tiene a freno i salari. In questa analisi del processo di accumulazione scompaiono tutti i vecchi fantasmi dei classici: i rendimenti decrescenti e il malthusianesimo. Al loro posto Marx scoprì tutta una serie di contraddizioni, di cui i suoi predecessori non sospettavano nemmeno, che facevano intravedere un futuro completamente diverso per il sistema capitalistico. In primo luogo c’erano tutte le forze che determinano i cicli economici e le crisi: l’anarchia della produzione capitalistica, la tendenza alla caduta del saggio di profitto, la crescente sproporzione fra capacità di produzione e capacità di consumo. In secondo luogo, c’era il processo che Marx definì concentrazione e centralizzazione del capitale, che comportava l'”espropriazione di molti capitalisti da parte di pochi”. Infine c’era la crescita di un proletariato sempre più sfruttato, disciplinato e potenzialmente rivoluzionario (1). Tutte queste forze e tendenze, combinandosi fra loro e agendo l’una sull’altra, avrebbero portato ad una inevitabile conclusione: “Il ‘monopolio del capitale diventa un vincolo del modo di produzione’, che è sbocciato insieme ad esso e sotto di esso. La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. ‘Suona l’ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati'” (‘Il Capitale, libro I. p. 826)”  [(1) Su questo argomento si veda il capitolo “Marx e il proletariato” (P.M. Sweezy)] [Paul M. Sweezy, Il capitalismo moderno, 1975]