“Troviamo così (in Marx ed Engels ndr) la convinzione che il dominio sociale borghese o feudale-borghese non consente serie modificazioni parziali; e troviamo la convinzione che il proletariato, schiacciato dalla forza del capitale e dalla concorrenza fra gli operai, non riesce fino alla rivoluzione a uscire veramente dalla negatività e a costituire premesse positive e resistenti della transizione. Un dualismo radicale, aggredibile di fatto con la sola rivoluzione, segna la società borghese. Ricordo il manoscritto di Marx sul ‘Salario’ del 1847, dove a proposito di quelle “riforme” che sono le associazioni operaie si osserva: “Costi che esse provocano per gli operai, per lo più maggiori degli aumenti di guadagno che vogliono ottenere. A lungo andare non possono resistere alle leggi della concorrenza”. Ricordo anche la prima sezione del ‘Manifesto’, la quale si conclude presentando il proletario come il lavoratore produttivo che con lo sviluppo delle forze produttive della sua società non può elevarsi e può cadere sempre più in basso e diventare “il povero”. Ricordo ancora ‘Lavoro salariato e capitale’. Proprio nelle prime pagine, che sono dell’aprile 1849, nel quadro di una interpretazione del fallimento della rivoluzione ispirata alle posizioni che stiamo vedendo, Marx scrive: “Ogni sollevazione rivoluzionaria, anche se il suo scopo appare molto lontano dalla lotta di classe, fallisce necessariamente fino a che la classe operaia rivoluzionaria non vince; ogni riforma sociale resta una utopia finchè la rivoluzione proletaria e la controrivoluzione feudale non si misurano con le armi in una guerra mondiale”.” [Aldo Zanardo, Riforme e rivoluzione in Marx e Engels][in ‘Riforme e rivoluzione nella storia contemporanea’, a cura di Guido Quazza, 1977]