“Se però ci sforzassimo a ridurre ad ogni costo in un coerente sistema le pagine che Jaurès scrive in apologia del materialismo storico quando polemizza con Bernstein, e le riserve che invece avanza altrove, mostreremmo di credere che non sia nostro dovere, in quanto storici del suo pensiero, di segnalare anche le contraddizioni esplicite ed implicite che esso contiene e mancheremmo di rispetto al vero. Vero è, invece, che anche nella concreta risoluzione di problemi storici, le perplessità di Jaurès sul metodo marxista ricompaiono, e che il suo dissenso si manifesta non solo nei confronti degli epigoni degeneri, ma anche dello stesso Marx e in particolare di quella che è forse la sua più acuta opera di interpretazione storica, ‘Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte’, proprio quell’opera – vedi caso – alla quale si richiamava Engels nella lettera a Bloch per dimostrare come fossero lontani dal maestro quei pretesi marxisti che riducevano il materialismo storico a determinismo economico! A qual proposito Jaurès credeva di dover rifiutare il modello storiografico del ’18 brumaio’? Giova richiamare brevemente la questione, anche perché si trattava di uno dei problemi centrali della storia della Rivoluzione. Si trattava, cioè, di definire il contenuto sociale della politica girondina e del conflitto fra la Gironda e la Montagna. Jaurès ha descritto con grande efficacia l’involuzione reazionaria dei girondini; ha mostrato come essi siano passati gradatamente dal blocco rivoluzionario al blocco controrivoluzionario, come intorno a loro si siano raccolte le forze dei «proprietari», dei borghesi spaventati dalla minaccia alla proprietà che viene dal movimento popolare guidato dal Comune di Parigi; ha descritto come, a conclusione della loro involuzione, i girondini si siano trovati alla fine a combattere su un fronte comune con i realisti; ma quando si appresta a formulare un giudizio di carattere generale circa la Gironda e le cause della caduta, egli arretra di fronte alle conclusioni che pure sembrano discendere direttamente dal suo stesso racconto, e dalla documentazione che ha illustrato. Rifiuta l’opinione di uno storico moderato come il Sybel, secondo il quale i girondini si erano ridotti ad essere partito esclusivo della borghesia, e seguendo piuttosto la traccia dell’Aulard, conduce il confronto tra montagnardi e girondini sul terreno dell’ideologia, ove non rintraccia differenze sostanziali: ne conclude che l’involuzione reazionaria e la conseguente caduta della Gironda furono determinate solo dal gretto spirito di partito e di fazione che animava i suoi membri. Due pagine dopo rileva tuttavia come questo rinchiudersi della Gironda in se stessa avesse avuto origine dall’irrompere sulla scena di quelle «forze nuove delle quali Parigi era il centro»; ma la resistenza dei girondini a queste forze sarebbe stata dettata dall’egoismo del potere, dall’ambizione, dall’orgoglio, cioè dalle più comuni passioni umane, non da antagonismi sociali. Ciò vuol dire, per Jaurès, che la lotta di classe non è ‘all’origine’ della lotta politica tra montagnardi e girondini, ma tuttavia egli non nega che ‘in un secondo tempo’ il conflitto politico abbia assunto anche il contenuto di un conflitto di classe: «Naturalmente, e attraverso la critica che essa applicava alle forze nuove della democrazia, la Gironda si costituì delle tesi politiche politiche e sociali. Ma queste tesi non erano il ‘fondamento originale’ della politica girondina. Erano il pretesto, trovato dopo (‘après coup’), di un’opposizione denigratrice, orgogliosa ed aspra. Senza dubbio, il sordo conflitto sociale non tardò a mescolarsi alla politica dei partiti. Ma ‘a questa data esso non ne costituisce il fondo»” (pag XL-XLII) [Gastone Manacorda, introduzione all’opera di Jean Jaurès, ‘Storia socialista della Rivoluzione francese’, Cooperativa del libro popolare, MIlano, 1953]