“E qualcosa del Buonarroti, della sua interpretazione della Rivoluzione e del babuvismo, come sviluppo estremo delle tendenze sociali implicite nel Terrore, si ritrova negli scritti giovanili del Marx e dell’Engels. Si è fatto un gran parlare, dallo Jaurés in poi, di alcune preziose vedute storiche dei due. Si sa che il Marx nel 1844 a Parigi, ripigliando letture avviate l’anno prima a Kreuznach, si proponeva di scrivere una storia della Convenzione; leggeva gli storici della Restaurazione, prendeva molti appunti dal Levasseur, sul contrasto fra girondini e montagnardi e sulla corrente ‘anarchica’ della rivoluzione. Il Ruge ci attesta l’intensità febbrile di questa sua rimeditazione delle vicende rivoluzionarie. In quegli stessi anni l’Engels a Londra assisteva in ambienti cartisti ad appassionate rievocazioni del Robespierre e del Babeuf e ne traeva lo spunto per una interpretazione della Rivoluzione conforme alle sue idee. Nel 1845, sui ‘Rheinischer Jahrbücher’, egli poneva in luce che la grande rivoluzione era ben altro che la lotta per questa o quella forma di stato; notava il rapporto fra le insurrezioni di quei tempi e le condizioni di miseria e di fame del popolo, il significato sociale delle misure per l’approvvigionamento della capitale, la ripartizione delle derrate, il ‘maximum’; il profondo contenuto rivoluzionario del celebre grido di battaglia: ‘Guerre aux palais, paix aux chaumières’. E, svolgendo le stesse tesi buonarrotiane, affermava che la costituzione del 1793 e il Terrore erano l’opera di quel partito che si appoggiava sul proletariato insorto, che la caduta del Robespierre era la vittoria della borghesia sul proletariato, e che la congiura del Babeuf per l’eguaglianza rappresentava il tentativo di portare alle estreme conseguenze i principî democratici del ’93 (1). Più noti sono i giudizi del giovane Marx sul carattere borghese della grande rivoluzione, sul tentativo proletario del 1793 di sorpassare i limiti di questa rivoluzione borghese – tentativo destinato a fallire per la violenta contraddizione con le condizioni obbiettive della società di allora -, sul significato dell’azione rivoluzionaria degli ‘enragés’ e dei babuvisti. Nella ‘Santa Famiglia’ del 1845 notava che il movimento rivoluzionario, che ebbe come rappresentanti principali, a mezzo della sua evoluzione, Leclerc e Roux, e che finì per soccombere un istante con la cospirazione di Babeuf, aveva fatto sbocciare l’idea comunista, e due anni dopo ribadiva che proprio la prima apparizione di un partito comunista realmente attivo si era prodotta nel quadro della rivoluzione borghese. Su questi e altrettanti giudizi del Marx e dell’Engels, assunti, con supina e bigotta devozione, a fondamentali criteri d’interpretazione, si è venuta foggiando da scrittori marxisti – dal Kautsky fino al Guérin, un leninista e trotskysta dei nostri giorni, che ha fabbricato una storia della rivoluzione sulle teorie della rivoluzione permanente e dello sviluppo combinato – una storiografia mediocre e infeconda. La verità è che i giudizi storici del Marx e dello Engels sono stati assai sopravalutati (…)” (pag 545-546) [Alessandro Galante Garrone, ‘Filippo Buonarroti e l’apologia del Terrore’, Belfagor- Leo Olschki, Firenze, v. 2, n. 5, 15 settembre 1947] [(1) F. Engels, ‘Das Fest der Nationen in London’, in ‘Rheinische Jahrbücher’, 1846. Vedi Marx Engels Gesamtausgbe, parte I, vol. IV, p. 458]