“Il potere e i filosofi si cercano, convergono o divergono a seconda dei momenti e delle circostanze. Le loro lotte e i loro accordi dominano l’Europa repubblicana così come quella monarchica, quella mediterranea così come quella centrale ed orientale. Un solo paese è assente in questo spiegamento dei lumi tra gli anni ’60 e ’70, ed è l’Inghilterra. Che proprio il pase che si va preparando alla rivoluzione industriale sia poi quello in cui non esiste un movimento illuminista è cosa che basterebbe da sola a far dubitare della troppo spesso ripetuta interpretazione marxista dei lumi come ideologia della borghesia. Né vale dire che la rivoluzione borghese l’isola britannica l’aveva già compiuta un secolo per l’innanzi, ché gli storici dell’economia son lí per spiegarci che le trasformazioni interne dell’Inghilterra durante il Settecento sono fondamentali, essenziali. Resta il fatto che a Londra non si forma un «parti des philosophes», il quale chieda di dirigere la società, che le lotte allora esistenti – basta pensare a «Wilkes and liberty» – non son quelle dell’intelligencija nascente. Anche il gigante inglese dei lumi, Gibbon, non solo è strettamente legato alla cultura del continente ma rimane un grande isolato, una torre solitaria nel suo paese. Né la ripresa della tradizione dei commonwealthmen e uomini come Thomas Hollis bastano a colmare questa lacuna, per interessanti che siano. Curiosi e significativi proprio perché sembrano sostituire qualcosa che manca. Il radicalismo inglese nasce anch’esso attorno al 1764, ma ha caratteri ben diversi dalla filosofia del continente. Bisognerà aspettare gli anni ’80 e ’90 per trovare i Bentham, i Price, i Paine e i Godwin. Il ritmo, in Inghilterra è diverso. Suppongo che per capire questa situazione la cosa più utile sia di guardare all’altro capo dell’isola britannica, e volgere lo sguardo alla Scozia. Là troviamo invece tutti gli elementi essenziali d’un moto illuminista” (pag 162-163) [Franco Venturi, ‘Utopia e riforma nell’ illuminismo’, Einaudi, Torino, 1970]