“L’offensiva tedesca ci mise di fronte a difficoltà insormontabili, in un momento in cui non avevano alcun mezzo per risolverle, né l’elementare possibilità di trovare o di creare tali mezzi. Cominciammo col preparare un appello. Ne approntai uno dal titolo: «La patria socialista in pericolo», che venne discusso insieme ai socialisti rivoluzionari di sinistra. Questi, nella loro qualità di nuove reclute dell’internazionalismo, rimasero alquanto perplessi per il titolo. Lenin invece approvò caldamente: – È indicativo, invece, della nostra totale inversione di rotta a proposito della difesa nazionale. È proprio ciò che ci vuole. In uno degli ultimi paragrafi dell’appello si minacciava la fucilazione sul posto per chiunque avesse prestato aiuto al nemico. Il socialista rivoluzionario di sinistra Steinberg, che non so qual buon vento avesse spinto nelle braccia della rivoluzione fino al Consiglio dei commissari del popolo, insorse contro quella feroce minaccia che, come disse, nuoceva all’«eloquenza» dell’appello. – Al contrario – esclamò Lenin -, è proprio in ciò che consiste l’autentica eloquenza rivoluzionaria! (E sottolineò con ironia la parola «eloquenza»). Come pensate che potremo uscire vittoriosi da questa lotta senza usare il più impetuoso terrore rivoluzionario? Era il periodo in cui Lenin non tralasciava occasione per riaffermare il concetto del terrore inevitabile. Ogni manifestazione di «bonarietà», di candida cordialità, di debolezza – e ve ne erano in abbondanza – lo indignavano, non per se stesse, per la verità, quanto perché costituivano la prova che la stessa avanguardia della classe operaia non si era ancora resa conto che esistevano dei problemi enormi da affrontare con energia. – Corrono il rischio di perdere tutto – diceva dei nostri nemici -. E tuttavia hanno dalla loro parte centinaia di migliaia di uomini che hanno fatto la scuola di guerra, temerari, pronti a tutto: ufficiali, ‘junker’, figli di borghesi e di proprietari, poliziotti, contadini ricchi. E questi nostri «rivoluzionari» – mi si passi l’espressione – pensano di poter fare la rivoluzione con le buone maniere, tra gentiluomini. Ma dove sono andati a scuola? Che cosa intendono per dittatura? Quale sarebbe la loro dittatura da babbei? Almeno dieci volte al giorno ripeteva qualcuna di queste sfuriate indirizzate sempre a qualcuno dei presenti sospetto di «pacifismo». Se si veniva a parlare, Lenin presente, di rivoluzione o di dittatura durante le riunioni del Consiglio dei commissari del popolo, oppure in presenza di socialisti rivoluzionari di sinistra o di comunisti esitanti, non c’era volta che egli non gridasse: – Ma dov’è che vedete questa nostra dittatura? Avanti, mostratemela! Questa sarebbe una dittatura? Una pappa, ecco cos’è! Una pappa buona per i gatti! Gli piaceva molto l’espressione «pappa» da lui adoperata nel senso di intruglio. – Se non siamo neppure capaci di fucilare un sabotatore della guardia bianca, come la faremo questa grande rivoluzione? Leggete dunque ciò che quei furfanti borghesi scrivono sui loro giornali! E ciò perché non esiste dittatura, ma solo chiacchiere e pappa… Questi discorsi esprimevano un autentico stato d’animo di Lenin, ma, nello stesso tempo, erano profondamente calcolati: conformemente al suo metodo egli voleva fare entrare in testa a tutti la necessità di misure eccezionalmente rigorose per la salvezza della rivoluzione. La debolezza del nuovo apparato governativo ebbe modo di rivelarsi nel momento in cui i tedeschi scatenarono l’offensiva. – Ieri eravamo ancora solidamente in sella – diceva Lenin in privato -, ma oggi siamo costretti ad aggrapparci alla criniera della bestia. Ci servirà di lezione! E la lezioni di farà guarire da questa maledetta negligenza da autentici Oblomov quali siamo. Bisogna mettere ordine nelle proprie cose, applicarsi coscienziosamente al proprio lavoro, se non si vuole restare per tutta la vita degli schiavi! Sarà per noi una buona lezione, se… se i tedeschi e i bianchi non ci butteranno giù di sella. – Ebbene ditemi – mi chiese un giorno di punto in bianco Vladimir Ilic -, se le guardie bianche dovessero ucciderci, voi ed io intendo, credete che Bucharin e Sverdlov si saprebbero trarre d’impaccio? – Bah! Forse protremmo anche non essere uccisi, risposi scherzando. – Diavolo! Non si sa mai – disse Lenin – scoppiando a ridere. E la conversazione non ebbe seguito” [Leon Trtosky, ‘Lenin’, Samona e Savelli, Roma, 1964]