“Concentrazione della produzione; conseguenti monopoli; fusione e simbiosi delle banche con l’industria: in ciò si compendia la storia della formazione del capitale finanziario e il contenuto del relativo concetto. Ora dovremmo esporre come lo «spadroneggiare» dei monopoli capitalistici, nell’ambito generale della produzione di merci e della proprietà privata, metta inevitabilmente capo al dominio dell’oligarchia finanziaria. È da osservare che i rappresentanti della scienza borghese tedesca – e non di quella sola – come Riesser, Schulze-Gaeverniz, Liefmann, ecc., sono, senza eccezione, apologeti dell’imperialismo e del capitale finanziario. Essi non svelano, anzi occultano e abbelliscono il «meccanismo» della formazione dell’oligarchia, i suoi metodi, l’entità delle sue entrate (così «lecite» come «illecite»), la sua collusione con i parlamenti, ecc. Essi sfuggono alle «questioni maledette» con frasi ampollose quanto oscure, richiamandosi al «senso di responsabilità» dei direttori di banche, levando alle stelle il «senso del dovere» dei funzionari prussiani e occupandosi con grande serietà dei particolari di progetti di legge poco seri sulla «sorveglianza» e sulla «regolamentazione» e di frascherie teoriche quale la seguente «scientifica» definizione alla quale è pervenuto il prof. Liefmann (…). Ma i fatti mostruosi, che riguardano il mostruoso dominio dell’oligarchia finanziaria, saltano talmente agli occhi che in tutti i paesi capitalistici, così in America come in Francia e in Germania, è sorta un’intera letteratura, che pur rimanendo sul terreno dei concetti ‘borghesi’, tuttavia dà un quadro approssimativamente esatto e una critica – piccolo-borghese , s’intende – dell’oligarchia finanziaria. La pietra angolare è nel «sistema della partecipazione» (1), al quale si è già accennato. Un economista tedesco, Heymann, forse il primo che ha rivolto l’attenzione a questo sistema, così lo descrive: «Il dirigente controlla la “società madre” [cioè la società base], questa le “società figlie” [cioè le società che le dipendono], queste a loro volta le “società nipoti” e così via. In questo modo con capitali non eccessivamente grandi, si possono padroneggiare immensi campi della produzione; giacché, posto che per esercitare il controllo sopra una società per azioni è sufficiente la padronanza del cinquanta per cento del capitale, basta al dirigente di possedere un milione, per poter controllare nelle società nipoti, già 8 milioni di capitale. Se detto “intreccio” si estende ancor più, si ha il controllo su 16 milioni, su 32 e via dicendo (*). Ma in realtà l’esperienza dimostra che basta possedere il quaranta per cento di tutte le azioni per dominare l’andamento degli affari di una società per azioni (**) , giacché una parte dei piccoli azionisti, disseminati qua e là, non ha la possibilità di intervenire alle assemblee generali, ecc. La «democratizzazione» del possesso di azioni, dalla quale i sofisti borghesi e gli opportunisti «pseudo-socialdemocratici» si ripromettono (o fingono di ripromettersi) la «democratizzazione del capitale», l’aumento d’importanza e di funzione della piccola produzione, ecc., nella realtà costituisce un mezzo per accrescere la potenza dell’oligarchia finanziaria. È precisamente per questo che nei più progrediti o più antichi ed «esperti» paesi capitalistici la legislazione permette l’emissione delle azioni più piccole” (pag 534-535) [Capitale finanziario e oligarchia finanziaria’, (in) ‘L’imperialismo, fase suprema del capitalismo’, (in) V.I. Lenin, ‘Scritti economici’, Editori Riuniti, Roma, 1977] [ (1) È quello che oggi viene comunemente definito sistema delle ‘holdings’ e delle società a catena; (*) H.G. Heymann, ‘Die gemischten Werke im deutsche Grosseisengewerbew’, Stoccarda, 1904, p. 269; (**) Liefmann, op. cit.; p. 358]  [Lenin-Bibliographical-Materials] [LBM*]