“La civiltà politica cristiano-borghese è stata sostanzialmente soltanto il surrogato di una autentica comunità universale degli uomini. Abbiamo avuto, in effetti, una raffinata civiltà dell’individuo (cioè del privilegiato), non della comunità umana e perciò i presupposti tecnico-pratici imponenti che per la vita sociali sono stati forniti dalla scienza e dalla tecnica si sono concretati socialmente nella nascita di gigantesche metropoli piuttosto che di grandi unità cittadine, di grandi potenze piuttosto che di grandi comunità nazionali, di grandi imperi piuttosto che di grandi civiltà umane. Il grande limite di questo tipo di civiltà è stato dato, a ben vedere, dalla illusione di poter unificare il genere umano soltanto ed esclusivamente nella astrattezza della ‘speranza’ celeste cristiana o della ‘libertà politica’ formale, lasciando che la concretezza del presente e la realtà dell’esistenza affondassero nella divisione, nella separazione, nella contrapposizione. È stata – quella cristiano-borghese – soprattutto una civiltà ideale o, se si vuole, una ‘civiltà pensata’ che ha saputo indicare grandi traguardi senza concretamente condurre la massa degli uomini ad una esistenza comunitaria reale. L’unificazione del genere umano si è verificata sul piano materiale perché «in luogo dell’antico isolamento locale e nazionale, per cui ogni paese bastava a se stesso, subentrava un traffico universale, una universale dipendenza delle nazioni l’una dall’altra» (K. Marx, F. Engels, ‘Il manifesto del partito comunista’). Ma se ora «la storia diventa sempre più storia universale» (‘L’ideologia tedesca’) e anche «i prodotti spirituali delle singole nazioni diventano patrimonio comune» (‘Il manifesto’), il genere umano resta spaccato nella vita pratica sia sul piano verticale della divisione in classi sia sul piano orizzontale della divisione per nazioni. E così l’anima della nostra convivenza resta in ogni senso la «selvaggia libertà» della lotta di classe e della guerra. È ben vero che anche lo spirito borghese riesce a immaginare la formazione di «uno Stato di popoli (civitas gentium), che si estenda sempre più, fino ad abbracciare da ultimo tutti i popoli della terra» (Kant, ‘Per la pace perpetua’). Ma questa, come ogni altra idealità, resta soltanto un traguardo morale perché gli Stati «rigettano ‘in ipotesi’ ciò che ‘in tesi’ è giusto» sicché «in luogo dell’idea positiva di una ‘repubblica’ universale, perché non tutto debba andar perduto, fanno ricorso al surrogato ‘negativo’ di una ‘lega’ permanente sempre più estesa, che ponga al riparo dalle guerre e arresti il torrente delle tendenze ostili contrarie al diritto, ma col continuo pericolo della sua rottura» (ibidem). Così il modello della unificazione politica universale resta un modello impossibile concretamente sostituito dal modello surrogato di una organizzazione internazionale degli Stati. Anche qui il diritto e cioè la forza politicamente organizzata in coazione sociale surroga una reale unificazione degli uomini in comunità. Così, l’universalismo borghese resta per un verso confinato nella anonima integrazione mercantile del mondo pratico e per un altro nell’astratta predicazione di una comunità soltanto ideale: in concreto esso è sempre sostituito dalla divisione egoistica, della scissione in classi, dalla separazione statuale delle nazioni, da un vero e proprio ‘bellum omnium contra omnes’ nel quale l’eguale possibilità giuridica si traduce in prevaricazione del più forte, del privilegiato, del potente” (pag 34-35) [Umberto Cerroni, ‘Crisi ideale e transizione al socialismo’, Critica marxista, n. 1, genn-febbr. 1976 (pag 33-52)]