“Nell’ambito di ciò che egli sa, Ricardo è sempre conseguente. In lui, il principio che non è possibile una ‘sovraproduzione’ (di merci) è dunque identico al principio che non è possible una pletora o sovrabbondanza di capitale (1). (…) Che cosa avrebbe detto allora Ricardo della stupidità dei suoi successori, i quali negano la sovraproduzione in una forma (generale sovrabbondanza di merci sul mercato), e non solo l’ammettono nell’altra forma, come sovraproduzione di capitale, pletora di capitale, sovrabbondanza di capitale, ma ne fanno uno dei punti essenziali della loro dottrina? Neppur uno, fra gli economisti responsabili del periodo post-ricardiano, nega la [possibilità della] sovrabbondanza di capitale. Tutti vi cercano piuttosto la spiegazione delle crisi (a meno che non le facciano derivare da questioni di credito). Dunque tutti ammettono la sovraproduzione in una forma, ma la negano nell’altra. Resta dunque da domandarsi: in che rapporto stanno fra loro le due forme di sovraproduzione, l’una in cui essa è negata, l’altra in cui è sostenuta? Ricardo stesso, in verità, non sapeva niente delle crisi, delle crisi generali, mondiali, dovute al processo stesso di produzione. Le crisi dal 1800 al 1815, egli poteva spiegarle con la carestia di cerali dovuta alle cattive raccolte, con la svalutazione della moneta cartacea e delle merci coloniali ecc., perché, in seguito al blocco continentale, il mercato era contratto violentemente, per ragioni politiche, non economiche. Le crisi posteriori al 1815, poteva egualmente spiegarle sia con una cattiva annata, con una carestia, sia con la caduta dei prezzi del grano, perché avevano cessato di operare le cause che, secondo la sua propria teoria, durante la guerra e l’isolamento dell’Inghilterra dal Continente, dovevano rialzare i prezzi dei cerali, sia col trapasso dalla guerra alla pace e le conseguenti “improvvise modificazioni nei canali del commercio” (cfr. nei suoi ‘Principles’, il capitolo XIX, che tratta di questo). I fenomeni storici successivi, specialmente la periodicità quasi regolare delle crisi del mercato mondiale, non permisero più ai successori di Ricardo di negare i fatti o di interpretarli come fatti accidentali. Invece – prescindendo da coloro che spiegano tutto col credito, per poi [ammettere] di dover di nuovo presupporre la sovrabbondanza di capitale – scoprirono la bella distinzione fra ‘sovrabbondanza di capitale e sovraproduzione’. Rispetto a quest’ultima, essi mantengono le frasi e le buone ragioni di Ricardo e di Smith, mentre dalla prima cercano di dedurre fenomeni a loro altrimenti inesplicabili. Wilson, per esempio, spiega certe crisi  con la sovrabbondanza di capitale fisso, e altro con la sovrabbondanza di capitale circolante. La sovrabbondanza del capitale stesso viene sostenuta dai migliori economisti (come Fullarton) ed è già divenuta un pregiudizio talmente comune; che la si ritrova come un termine che non ha bisogno di spiegazioni anche nel compendio del dotto signor Roscher (2). Si domanda dunque: che cos’è la sovrabbondanza di capitale, e in che cosa essa si differenzia dalla sovraproduzione?  Secondo i medesimi economisti, il capitale è eguale a denaro o a merci. La sovraproduzione di capitale è dunque una sovraproduzione di denaro o di merci. E tuttavia i due fenomeni non devono aver niente in comune fra loro. Ma neppure si può parlare di sovraproduzione di denaro, poiché questo per loro è merce, di modo che tutto il fenomeno si risolve in una sovraproduzione di merci, che essi ammettono sotto una denominazione e negano sotto l’altra. Inoltre, quando si dice che vi è sovraproduzione di capitale fisso o di capitale circolante, ci si basa sul fatto, che qui non si considerano più le merci in questa semplice determinazione, ma nella loro determinazione come capitale. Ma in tal modo si ammette di nuovo che nella produzione capitalistica e nei suoi fenomeni – per esempio nella sovraproduzione – non si tratta soltanto del semplice rapporto, in cui il prodotto appare come ‘merce’, ma delle determinazioni sociali del medesimo, per cui il prodotto è qualche cosa di più e di diverso dalla merce. In generale, più significati sono impliciti in questa espressione: ‘sovrabbondanza di capitale’ invece di ‘sovraproduzione di merci’  è semplicemente un modo di dire evasivo, o [quella specie di] deficienza mentale, che ammette il medesimo fenomeno come esistente e necessario finché vuol dire ‘a’, ma lo nega non appena viene chiamato ‘b’, mostrando dubbi e scrupoli solo sulla ‘denominazione’ del fenomeno non sul fenomeno stesso; oppure [questa espressione risulta dalla sforzo] di dare una spiegazione al fenomeno, di sfuggire la difficoltà negandola nella forma in cui contraddice ai pregiudizi, e ammettendola solo in una forma vuota di senso. Ma a parte questi aspetti, nel passaggio dall’espressione “sovraproduzione di merci” all’espressione “sovrabbondanza di capitale”, vi è in realtà un ‘progresso’. In che consiste? [Nel riconoscimento] che i produttori non si contrappongono come semplici possessori di merci, ma come capitalisti” [K. Marx, Accumulazione di capitale e crisi] [(in) K. Marx, Storia delle teorie economiche. II. David Ricardo, 1955] [(1) Qui bisogna fare una distinzione. Quando Smith spiega la caduta del saggio di profitto con la sovrabbondanza di capitale, con l’accumulazione di capitale, si tratta di un effetto permanente, e ciò è falso. Invece la sovrabbondanza transitoria di capitale, la sovraproduzione, la crisi, sono cose differenti. Non vi sono crisi permanenti; (2) Senza dubbio va notato, per giustizia, che altri economisti, come Ure, Corbet, ecc., spiegano la sovraproduzione come ‘la condizione naturale della grande industria’, dal punto di vista del mercato interno, così che la sovrapproduzione porta a crisi soltanto in certe condizioni, quando si contrae anche il mercato estero]