“Hobsbawm è un po’ generico, o reticente, sulle ragioni della crisi, ma a questo proposito vi è solo l’imbarazzo della scelta se si procede alla consultazione delle trattazioni specialistiche. Per quel che riguarda per esempio, le analisi degli economisti, le linee che sono state percorse sono innumerevoli. Tra queste, segnalo soltanto tre grandi gruppi. Il primo insieme di spiegazioni ha a che vedere con la tecnologia. In questo modo di vedere le cose, per il quale recentemente è possibile vedere i lavori degli economisti francesi Gérard Duménil e Dominique Lévy, la causa profonda della crisi sarebbe da individuare nella riduzione del tasso di crescita della produttività, a sua volta riconducibile alla natura delle tecniche impiegate (3). Almeno dagli anni Sessanta, si sostiene, è possibile constatare un rallentamento nella produttività oraria del lavoro e un declino del saggio del profitto dovuto al peso crescente del capitale fisso rispetto al lavoro vivo. Il riferimento esplicito degli autori, statisticamente attrezzati e al passo con le teorie economiche di impostazione classico-ricardiana e keynesiana, è al Marx del terzo libro del ‘Capitale’, quello della caduta tendenziale del saggio del profitto, lo stesso Marx che sta dietro la ricostruzione della crisi che fu tempestivamente fornita nei primi anni Settanta da Ernest Mandel, recentemente scomparso, nel suo ‘Spätkapitalismus’, dove però il tema della crescita della composizione organica del capitale veniva inserito dentro una ripresa della teoria delle “onde lunghe” del capitalismo (4). Alla tecnologia e alle onde lunghe hanno fatto, in vario modo, riferimento anche autori non marxisti, come Gerhard Mensch o i neoschumpeteriani. Il secondo blocco di spiegazioni si volge invece al tema dell’anarchia nel modo di produzione capitalistico, e perciò della concorrenza fra capitali, articolandolo con il tema della sovrapproduzione. Esemplare di questo approccio è il recente contributo di Robert Brenner che copre l’intero numero 229 della “New Left Review” (5). A parere di Brenner, tra il 1965 e il 1973 i capitalismi tedesco e giapponese avevano oramai ultimato l’inseguimento degli Stati Uniti ed erano di conseguenza in grado di impiegare nel settore manifatturiero tecnologia avanzate con manodopera relativamente meno costosa, e potevano perciò praticare prezzi inferiori rubando quote di mercato all’economia del paese guida. Ne risultò una minore profittabilità per le imprese americane, che si trovarono con un eccesso di investimenti e di capacità produttiva. A impedire una uscita morbida dalle difficoltà e a determinar un rallentamento di lungo periodo dell’economia mondiale contribuì in modo decisivo l’irreversibilità dell’investimento in capitale fisso che indusse i produttori manifatturieri Usa a non spostare i propri capitali su altre attività. La risposta americana alla concorrenza – introduzione di nuove tecniche e attacco al lavoro, da parte delle imprese; uso aggressivo della propria posizione di vantaggio nel sistema internazionale dei pagamenti, che sfociò nel crollo del sistema di Bretton Woods e nel successivo, continuo scivolamento del dollaro per tutto il decennio, da parte del governo – generalizzò la crisi agli altri paesi avanzati. Il referente teorico potrebbe essere qui individuato nel Marx del secondo libro del ‘Capitale’, secondo il quale la caccia all’economia dei costi delle singole imprese si traduce in una crisi di realizzazione dell’intero sistema economico per il tramite delle sproporzioni, mentre il gruppo raccolto attorno a Paul Sweezy e al gruppo della “Monthly Review” insiste piuttosto sul filone del sottoconsumo. Il terzo gruppo di spiegazioni individua la radice della crisi nel conflitto sociale, ritenuto responsabile di una compressione dei profitti che viene interpretata come non interamente riconducibile alla autonomia dinamica tecnologica o all’insufficienza di sbocchi. (…)” (pag 60-62) [note: (3) Cfr. G. Duménil D. Lévy, La dynamique du capita. Un siécle d’économie américaine, Puf, Paris, 1996 e, degli stessi autori, ‘La disoccupazione strutturale nella crisi di fine secolo. Un confronto fra l’esperienza europea e quella statunitense’ in R. Bellofiore (a cura), ‘Il lavoro di domani. Globalizzazione finanziaria, ristrutturazione del capitale e mutamenti della produzione’, BFS, Pisa, 1998; pp. 51-70; (4) Cfr. E. Mandel, ‘Late Capitalism’, New Left Books, London, 1975 (ed. orig. 1972); Id., The Second Slump’, idem, London, 1978 (ed. orig. 1977). Un’altra analisi che rivendica, con argomenti ancora diversi, la teoria della caduta del saggio del profitto come chiave interpretativa dello sviluppo e della crisi del secondo dopoguerra è quella di M.J. Webber, D.L. Rigby, ‘The Goldn Age Illusion Rethinking Postwar Capitalism’, Guilford press, NY, 1996; (5) Cfr. R. Brenner, The Economic of Global Turbolence. Uneven Development and The Long Downturn: The Advanced Capitalist Economies from Boom to Stagnation, 1950-1998′, in ‘New Left Review’, 1998, n. 229, p. 1-265] [Riccardo Bellofiore, ‘I lunghi anni Settanta. Crisi sociale e integrazione economica internazionale’ (pag 57-102) (in) Luca Baldissara, a cura, ‘Le radici della crisi. L’Italia tra gli anni Sessanta e Settanta’, Carocci, Roma, 2001]