“(…) [C]he ogni prodotto, ogni «bene economico» sia «risultato del lavoro umano» nella sua applicazione alla natura, questo è vero per ‘ogni’ società. Filare cotone o mietere grano comporta un’erogazione di forza lavorativa umana sotto tutti i cieli e in ogni tempo: costa dispendio di energia sia a Cincinnato che al servo della gleba o al colcosiano. «Il lavoro fonte di ogni ricchezza di ogni civiltà» è una «frase, – dice Marx, – che si trova in tutti i sillabari, e in tanto è giusta in quanto è sottinteso che il lavoro si esplica con i mezzi e con gli oggetti che si convengono» (1). Come avverte il ‘Capitale’, «il lavoro come formatore dei valori d’uso, come ‘lavoro utile’, è una condizione d’esistenza dell’uomo indipendente da tutte le forme della società, è una necessità eterna della natura che ha la funzione di mediare il ricambio organico fra uomo e natura, cioè la vita degli uomini» (I, I, p. 55). Di esso quindi è superfluo occuparsi (anche se ne trattano Rodbertus, Wagner e molti economisti «volgari»), per i semplice fatto che questo lavoro, il lavoro «in generale», qui non è altro che l’elemento comune a ‘ogni’ lavoro concreto in quanto esso sia «dispendio di forza lavoro umana in forma specifica e definita dal suo scopo», in quanto cioè esso abbia la qualità di lavoro concreto utile che produce ‘valori d’uso’. Esso ci dà l’elemento generale che accomuna tra loro attività così disparate come: respirare, lavare, filare, arare, seminare e persino amare, nella misura, almeno, in cui questa attività si spinga a tanto da implicare un’erogazione di energia. Ma, se le cose stanno veramente a questo modo, quand’è allora che ‘il’ lavoro, il lavoro «in generale», come dispendio di forza-lavoro umana, diviene ‘scientificamente’ interessante? Lo diviene, solo ed ‘esclusivamente’, in una società in cui le cose siano regolate in modo tale che la stragrande maggioranza dei lavori ‘utili’, cioè il dispendio ‘concreto’ di forza-lavoro, avvenga ‘non’ al ‘fine’ di produrre stivali, spilli, tela, grano ecc., ossia valori d’uso, ma per produrre valori d’uso come ‘mezzo’ di esistenza del ‘valore’; in cui, cioè, il prodotto del lavoro sia solo strumento perché in esso si ‘fissi’ o si ‘assorba’ la forza-lavoro, erogata poco importa in occasione di che. In questo caso, l’astrazione «lavoro», il lavoro «in generale», ossia il non tener conto della forma ‘concreta’ del lavoro (cioè se esso sia arare o filare) non è più una parola o una vuota astrazione ma è un’astrazione scientifica o determinata, ossia – come dice Marx – ‘praktisch wahr’, proprio perché costituisce l’unico modo di tener conto della differenza specifica, cioè del carattere reale che ha il lavoro in questa società (2). Essa cioè corrisponde (entspricht) a ‘un’ regime sociale in cui i modi concreti del lavoro sono indifferenti, non cioè fine ma mezzo; e precisamente: i lavori concreti ‘mezzi per erogare’ forza-lavoro, i prodotti dei lavori concreti ‘mezzi per assorbire’ o fissare quest’energia spesa. Qui «l’astrazione del lavoro in generale non è soltanto – dice Marx – il risultato mentale di una concreta totalità di lavori», cioè il frutto di una generalizzazione, perché, in questo caso, «l’indifferenza verso un lavoro determinato corrisponde a una forma di società in cui gli individui passano con facilità da un lavoro ad un’altro e in cui il genere determinato del lavoro è per essi fortuito e quindi indifferente. Il lavoro qui è divenuto non solo nella categoria, ma anche nella realtà, il mezzo per creare in generale la ricchezza, ed esso ha cessato di concrescere con l’individuo come sua destinazione particolare. Un tale stato di cose – egli continua – è sviluppato al massimo nella forma d’esistenza più moderna delle società borghesi, gli Stati Uniti. Qui, dunque, l’astrazione della categoria “lavoro”, il “lavoro in generale”, il lavoro ‘sans phrase’, che è il punto di partenza dell’economia moderna diviene ‘per la prima volta’ praticamente (cioè scientificamente) vera» (3)” (pag 25-26) [Marx, ‘Critica del programma di Gotha’, in ‘Il partito e l’Internazionale’, Roma, 1948, p. 225; (2) Sweezy, ‘La teoria dello sviluppo capitalistico’, Torino, 1951, p. 54, osserva che il lavoro astratto qui «non è un’astrazione arbitraria, perché è piuttosto, come giustamente osserva Lukács, un’astrazione che appartiene all’essenza del capitalismo». Marx, ‘Capitale’, I, I, Roma, 1951, p. 81: «…entro questo mondo il carattere generalmente umano del lavoro costituisce il suo carattere specificamente sociale»; (3) Marx, ‘Introduzione alla critica dell’economia politica’, Roma, 1954, p. 44] [Lucio Colletti, ‘Il concetto di lavoro in Marx’, Passato e Presente, Roma, n. 1, gennaio-febbraio 1958]