“Lo stesso fascino «sintetico» e «simbolico», la stessa calma piena di enormi significati pur nella semplicità della veduta, ritroviamo nei ‘Ten Days That Shook the World’ (1919). All’apice della sua opera, John Reed eleva a livelli raramente toccati prima il dono (affinato con tanta cura) di assimilare con la vista, con l’udito, con i nervi, con il cervello, con ogni molecola del corpo fino a «sciogliersi» negli avvenimenti, a diventarne a tal punto parte integrante che ci è difficile stabilire un distacco o cogliere una qualche separazione tra l’autore e la materia che gli si svolge intorno. (…) Così John Reed; dalla penna di un americano ci giunge quest’affresco appassionato ed affascinante che ritaglia dieci giorni d’un evento grandioso. Sono forbici sensibilissime e abili, quelle che han saputo seguire i contorni complessi, imprevedibili, sotterranei e vertiginosi di quei dieci giorni. Che han saputo penetrare i recessi della rivoluzione e della controrivoluzione, scavare negli stati d’animo poderosamente ondeggianti di masse gigantesche, percorrere i corridoi male illuminati, sporchi e caotici dello Smolny, attraversare le vie e le piazze in cui si formano e si sciolgono capannelli con la stessa insistenza frenetica di molecole viste al microscopio; che han saputo cogliere l’atmosfera sospesa delle notti di Pietrogrado sull’orlo della rottura rivoluzionaria, ricreare le tumultuose assemblee in cui la storia viene modellata da masse che si risvegliano alla politica e da capi che non hanno nulla del Superuomo, ma che sembrano pile pulsanti d’energia, che sprizzano parole, spiegano con pazienza, balzano in piedi per contestare e attaccare, strumenti della storia. Ecco la qualità di questo John Reed: un realismo che non è mai freddo e distaccato, o timido e reticente – ma nemmeno retorico, proprio quando la tentazione potrebbe esser forte. È la qualità della partecipazione costante e totale che permette di assimilare episodi, parole, stati d’animo, atmosfere, sfondi, per filtrarli attraverso un metabolismo di scrittore e riversarli sulla pagina nella loro quintessenza. Una visione complessa e attenta ai fatti, che sa chinarsi a raccogliere il quotidiano, il piccolo, il quasi invisibile, lo sporco, l’oggetto ovvio e fors’anche impolverato e non attraente; e nello stesso tempo, sa abbracciare il fiume in piena fragorosa. Un’attenzione sensibile e minuziosa per le tensioni nell’aria, (…) per i volti e le espressioni, per la voce delle folle e i silenzi delle piazze, per i crepitii nella notte e il rombo di colonne di soldati che passano: il tutto scarno, senza un grammo d’impressionismo in eccesso. Così si staccano in rilievo, questi quadri della città in attesa, delle sedute in aule piene di fumo, grida, odore umano, delle facciate enigmatiche di palazzi che racchiudono la storia di epoche, di Lenin e Trotsky onnipresenti, dei grandi e dei piccoli problemi (…). Certo, è giornalismo; ma anni prima, Walter Lippmann aveva visto giusto scrivendo a Reed a proposito dei suoi ‘reportages’ dal Messico: «Io dico che con John Reed comincia il giornalismo. Per inciso, (…) quelli articoli sono letteratura» (2). (…) In uno scritto sul futurismo, Trotsky – parlando del poema di Majakovski ‘150.000.000’ – ne individua una debolezza nella «mancanza di un’immagine della rivoluzione che sia forgiata dai nervi e dal cervello, e a cui siano sottomessi i procedimenti del magistero poetico» (3). Indubbiamente, Reed non è Majakovskj (4), e i ‘Ten Days’ non sono un poema. Ma se prendiamo la frase di Trotsky e la capovolgiamo in positivo, cogliamo il senso ultimo del libro di Reed, il significato del suo fascino letterario e storico, la sua attrattiva anche a sessant’anni di distanza: non è una semplice testimonianza dell’epoca, è molto di più. Lo vide bene (seppure con più retorica del dovuto) Max Eastman, quando commemorò Reed a New York, all’arrivo della notizia della sua morte (…)” (pag 216-219) [Mario Maffi, ‘La giungla e il grattacielo. Gli scrittori e il sogno americano, 1865-1920’, Laterza, Bari Roma, 1981] [(2) Walter Lippman a John Reed, 25 marzo 1914, cit. in Robert A. Rosenstone, ‘John Reed – Rivoluzionario romantico’, Ed. Riuniti, Roma, 1976, p. 250; (3) Lev Trotsky, ‘Il futurismo’, in ‘Letteratura e rivoluzione’, Einaudi, Torino, 1974, p. 135] [Lenin-Bibliographical-Materials] [LBM*]
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- Articolo pubblicato:11 Giugno 2020