“Erano le stesse idee che avrebbe sviluppato di lì a poco in un opuscolo che, spesso troppo disinvoltamente trascurato da chi si è occupato di [Giuseppe] Ferrari, rivela la facile adattabilità del suo socialismo a soluzioni di tipo autoritario e merita perciò una certa attenzione. ‘L’Italia dopo il colpo di Stato del 2 dicembre 1851’ fu pubblicato a Capolago nel maggio del ’52 e in esso il pensatore milanese, che l’anno prima aveva dato la ‘Filosofia della Rivoluzione’, ora esponeva una specie di pratica della rivoluzione in cui il colpo di Stato era visto come la logica conclusione della recente storia francese. A Proudhon, che pochi mesi più tardi – a luglio, per l’esattezza – avrebbe dato alle stampe il lavoro su ‘La révolution sociale démontrée par le coup d’état du 2 décembre’ contenente una tesi molto meno ottimistica di quella illustrata nell’opuscolo ferrariano (177), Karl Marx avrebbe, nella sua seconda prefazione al ’18 brumaio di Luigi Bonaparte’, rivolto un’accusa precisa, sostenendo che, poiché la chiave interpretativa dei fatti che avevano portato al 2 dicembre non era stata la lotta di classe, in Proudhon «la ricostruzione storica del colpo di stato si trasforma… in una apologia storica dell’eroe del colpo di stato» (178). La critica di Marx colpisce anche lo scritto di Ferrari, il quale, per di più, del testo proudhoniano avrebbe apprezzato soprattutto l’assunto per cui «la dittatura attuale è sociale», respingendo in blocco tutti i motivi di condanna in esso contenuti (179). Premesso che il 2 dicembre rappresentava «una violazione delle leggi» (180) senza precedenti, Ferrari affermava che il colpo di Stato «era nei destini della Francia, e se rimanesse dubbio sulla fatalità che lo imponeva, il dubbio sarebbe sciolto dal voto che lo sanzionò, e che gli diede una maggioranza di sette milioni e quattrocentomila voti contro seicentomila voti» (181); la libertà che aveva calpestato era fittizia, era quella dei repubblicani formalisti, «quella dell’assemblea, quella dei regi, quella dei ricchi, quella dei sofisti» (182). Luigi Napoleone aveva reso alle masse un favore non indifferente, e le masse lo avevano compensato con il plebiscito del 21 dicembre (…)” (pag 270-272) [Giuseppe Monsagrati, ‘Federalismo e unità nell’azione di Enrico Cernuschi (1848-1851)’, Nistri-Lischi, Pisa, 1976] [(177) I due opuscoli, quello di Ferrari e quello di Proudhon, sono analizzati da Franco Della Peruta, ‘Democrazia e socialismo nel Risorgimento’, cit., pp. 130-35, che li giudica come «strumenti di una battaglia politica concertata di comune accordo e da condurre parallelamente»; ma il Della Peruta non tiene conto delle critiche mosse dall’italiano al francese (vedile riportate nella nota 179); (178) Karl Marx, ‘Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte’, a cura di Giorgio Giorgetti, Roma, 1964, p. 35; (179) Ferrari a Cattaneo, 15 ag. ’52, in Cattaneo, ‘Epistolario cit. II, 497-98: «Lessi il libro di Proudhon che usciva il giorno stesso del mio arrivo: stile fortissimo e idee dimezzate, parole incendiarie e grandi transazioni, contraddizioni continue. Il fondo propone un ministero Proudhon non per ambizione che sarebbe stolida ma per smania di parlare; e non vede che la forza della dittatura attuale sta nel non esservi discussione, e la forza del Presidente sta nell’esser egli illogico; la sua facoltà di far grandi cose sta nell’esser egli principe, per cui non spaventa il commercio; e non vede Proudhon che la nostra speranza sta nell’esser Bonaparte condannato a contraddirsi e a morir di contraddizione». Per Ferrari si doveva concedere una tregua a Luigi Napoleone, nella certezza che il tempo avrebbe risolto tutti i dubbi, «ma – aveva già osservato in proposito Pisacane – questo tempo potrebbe anche essere quello dei geologi, il quale è un poco lunghetto» (Pisacane a Cattaneo, 15 dic. ’51, in Carlo Pisacane, ‘Epistolario’, cit. p. 134); (180) Giuseppe Ferrari, ‘L’Italia dopo il colpo di stato del 2 dicembre 1851’, Capolago, 1852, p. 5; (181) Ivi, p. 12; (182) Ivi, p. 21]