“Il primo libro di Rosselli, sulle origini del movimento operaio in Italia e sul contrasto tra Mazzini e Bakunin, fu pubblicato nel 1927 dall’editore Bocca di Torino (*). Si trattava, come sappiamo, della tesi di laurea arricchita da successive ricerche e soprattutto dalla consultazione, a Berlino, della quasi introvabile biografia di Max Nettlau su Bakunin, dei verbali del Consiglio dell’Internazionale e del carteggio fra Engels e i suoi corrispondenti italiani. Da quando aveva iniziato quel lavoro, tanto i suoi studi quanto la sua partecipazione alle vicende politiche si erano mossi, come abbiamo visto, in stretto rapporto con Gaetano Salvemini. E anzitutto da Salvemini Rosselli aveva appreso a non scindere il lavoro dello storico dall’impegno nella politica contemporanea, a collegare la ricostruzione del passato a una funzione educatrice da esercitare, «con l’aiuto della storia» appunto, nel presente (1). Una concezione non dissimile da Rosselli poteva trovarla in Guglielmo Ferrero il quale, com’è stato osservato, più che storico in senso stretto fu «un uomo che faceva la storia da politico e la politica da storico» (2). Del resto, la generazione di storici alla quale Rosselli apparteneva si alimentò di un’esperienza che fu principalmente esperienza politica (3). (…) Per Rosselli il progresso delle classi lavoratrici è inscindibilmente connesso con un miglioramento non solo delle loro condizioni economiche ma anche di quelli più generalmente culturali e intellettuali. L’immaturità del movimento operaio italiano intorno al 1860 si spiega, secondo lui, proprio con il fatto che «l’organizzazione operaia non sorge e non si consolida, o almeno sorge e si sviluppa stentatamente là dove manchi un certo grado di benessere materiale, oltre che di maturità intellettuale delle classi lavoratrici» (6). Qui sta una delle radici delle simpatie dell’autore per Mazzini, nel fatto che il programma operaio di quest’ultimo «presuppone una progressiva elevazione morale e culturale della classe operaia» (7). Rosselli analizza la funzione contraddittoria svolta da Mazzini nei confronti dell’organizzazione operaia e i limiti del suo modo di concepire la questione sociale: il fatto, cioè, che dopo l’unità il programma mazziniano divenne storicamente superato. Mazzini, dopo il 1860, trovò largo consenso nell’ambiente democratico cominciando a propagandare il suo programma sociale che era allora l’unico esistente, a parte quello moderato teso ovviamente a tutt’altre finalità. Il positivo ruolo svolto dall’attività condotta in campo sociale dai seguaci di Mazzini e il successo che inizialmente ad essa arrise dipendevano dal fatto che quell’azione sconvolgeva un quadro di stasi e ristagno. Per il resto Rosselli sottolinea i limiti della teoria sociale mazziniana e i motivi del suo fallimento. L’organizzazione operaia, per Mazzini, era legata a una precisa ideologia politico-religiosa che difficilmente poteva essere completamente accettata (e, in realtà, non lo fu del tutto neanche da parte dei suoi più fedeli seguaci). I nuclei operai interessavano Mazzini non tanto come mezzo per l’emancipazione economica delle classi lavoratrici, quanto per far leva su di essi al fine del completamento dell’unificazione nazionale con Roma e i territori ancora soggetti all’Austria. Da ciò scaturiva necessariamente il suo atteggiamento paternalistico e autoritario di fronte al problema operaio. Inoltre, era la stessa concezione di un’emancipazione che doveva passare per l’unione di capitale e lavoro, con la necessità di una collaborazione delle classi medie, a far sì che si determinasse ben presto una contraddizione fra il programma mazziniano e l’ulteriore sviluppo del movimento operaio. I primi scioperi, in relazione alla perdurante precarietà della condizione economica delle classi lavoratrici, indicheranno questa incompatibilità. (…) Non si comprenderebbe tuttavia il complesso atteggiamento di Rosselli di fronte alla figura di Mazzini se non si tenesse conto del fatto che l’accento posto da quest’ultimo sulla «progressiva elevazione morale e culturale della classe operaia», rendevano il giovane storico particolarmente sensibile a «quel senso accorato d’umanità, (…) quella larga simpatia umana per cui Mazzini è ‘sentito’ in ogni parte del mondo e, se pur lo si discute e nega, lo si comprende ed ama». A differenza di Marx, aggiungeva, che invece «si studia e si ammira». «Rovesciamo Mazzini – prosegue Rosselli – e si avrà qualcosa di molto simile a Marx: freddo, preciso, logicamente impeccabile, concreto; cervello assai più acuto che non sensibile cuore. Dall’uno non poteva venire che una predicazione di amore: il sogno della solidarietà fra le classi sociali, una dottrina di educazione e di elevazione morale. L’altro dalla secolare esperienza dell’umanità doveva trarre una ferrea legge economica, prima regolatrice d’ogni vicenda; legge che non nega, ma innegabilmente attenua l’influenza dei valori morali» (11). C’è qui la stessa preoccupazione di fondere valori morali e razionalità politica che aveva spinto socialisti come Alessandro Levi e Rodolfo Mondolfo a studiare con particolare attenzione la figura di Mazzini. Mondolfo si era interessato, nel suo ‘Sulle orme di Marx’ (1919), ai rapporti tra Mazzini e il socialismo convinto che, di fronte alle interpretazioni positivistiche, fosse necessario restituire «un contenuto spirituale e una filosofia al socialismo» (12). Levi aveva scritto nel volume su ‘La filosofia politica di Giuseppe Mazzini’ (1917) che, pur essendo socialismo e mazzinianesimo teorie inconciliabili, non per questo il primo non doveva, «ammaestrato dalla rude esperienza che ne ha sfrondato molte illusioni, smentito alcune previsioni, corretto molti errori di teoria e di tattica, trarre dal pensiero politico di Mazzini, e far suoi, ammaestramenti fecondi». Infatti, solo tenendo nel massimo conto in valori morali si sarebbe potuta superare la società presente e preparare la società nuova (13)” (pag 65-69) [Giovanni Belardelli, ‘Nello Rosselli’, Soveria Mannelli, 2007] [[(*) N. Rosselli, Mazzini e Bakunin. Dodici anni di movimento operaio in Italia (1860-1872). Einaudi, Torino, 1967. Nel titolo della prima edizione (F.lli Bocca, Torino, 1927) il nome dell’anarchico russo compariva, secondo la grafia in uso all’epoca, come Bakounine]; (1) G. Salvemini, ‘Pasquale Villari’, in ‘Nuova Rivista Storica’, a. 11 (1918), fasc. 2, poi in Id., ‘Scritti vari’, cit., p. 64; (2) G. Busino, ‘Dodici lettere di Guglielmo Ferrero a W.E. Rappard’, in ‘Nuova Antologia’, a. 97 (1962), fasc. 1942, p. 177; (3). Cfr. W. Maturi, ‘Interpretazioni del Risorgimento’, Einaudi, Torino, 1962, p. 466; (…) (6) N. Rosselli, ‘Mazzini e Bakunin. Dodici anni di movimento operaio in Italia (1860-1972)’, Einaudi, Torino, 1967, p. 43; (7) Ivi, p. 27; (8) Ivi, p. 212; (9) Già Salvemini aveva sottolineato, diversi anni prima, l’importanza delle ripercussioni della Comune [di Parigi] in Italia. Cfr. Rerum Scriptor [G. Salvemini], ‘I partiti politici milanesi nel secolo XIX’, Editori dell’Educazione politica, Milano, 1899; poi in G. Salvemini, ‘Scritti sul Risorgimento’, a cura di P. Pieri e C. Pischedda, Feltrinelli, Milano, 1961, p. 115; (10) N. Rosselli, ‘Mazzini e Bakunin’, cit., pp. 297 e 348; (11) Ivi, pp. 136 e, per le citazioni precedenti, 27 e 133; (12) R. Mondolfo, ‘Sulle orme di Marx, III ediz., vol. II, Cappelli, Bologna-Rocca San Casciano-Trieste, 1923, p. 73; (13) A. Levi, ‘La filosofia politica di Giuseppe Mazzini’, nuova edizione a cura di S. Mastellone, Morano, Napoli, 1967, p. 134]