“Lo specifico «capovolgimento» della società borghese è il risultato della contraddizione centrale del sistema di produzione capitalista, cioè dell’«antagonismo fondamentale» fra capitale e lavoro salariato, fra produzione sociale ed appropriazione privata. In questa contraddizione fondamentale si esprime la struttura di dominazione e di divisione in classi della società borghese, il cui presupposto è la permanenza della separazione dei produttori tanto dai mezzi di produzione, quanto dagli stessi prodotti del lavoro. Nella rappresentazione dello scambio di equivalenti, nel cui linguaggio la forza-lavoro è merce tra merci – una merce, però, che ha la particolare proprietà di produrre, nel suo consumo, cioè nel lavoro effettivo, più valore di quanto non ne richieda per la propria riproduzione – la forza-lavoro umana, creatrice di valore d’uso, diventa essa stessa un valore di scambio che crea valori di scambio. L’esclusione del produttore dalla determinazione della produzione e dalla facoltà di disporre dei mezzi di produzione «capovolge» la forza-lavoro, propria del produttore, in una merce che egli vende, cioè quasi in una cosa alienabile e scambiabile contro altre cose. Queste, benché prodotte da lui, gli si fanno incontro come cose estranee, esterne a lui e, dal punto di vista qualitativo, non si distinguono in nulla dalla sua propria forza-lavoro che, in quanto valore di scambio a sua disposizione, egli ha scambiato sul mercato con altre merci. Il sovvertimento della società borghese non è altro che questo carattere feticcio del mondo delle merci, che scaturisce «dallo specifico carattere sociale del lavoro che produce merci» (Marx, C, vol. I, p. 106), dove lo stesso lavoro che produce merci è soltanto il consumo del valore d’uso d’una merce, cioè della forza-lavoro. Su questo sfondo, costituito dall’analisi della società capitalista come «mondo rovesciato», che significato ha il concetto di legge in Marx? Come si differenzia dal concetto positivistico di legge? Quando Marx, convenendo con Vico, dice che «la storia dell’umanità si distingue dalla storia naturale per il fatto che noi abbiamo fatto l’una e non abbiamo fatto l’altra» (Marx, C, vol. I, p. 414, nota 89), definisce con ciò la differenza fondamentale del suo concetto di legge sociale da quello scientifico-positivista. Se, infatti, a differenza della storia naturale, la storia umana è stata fatta da noi, ciò implica che questa storia umana, fondamentalmente, non è determinata da una legalità sulla quale gli uomini non abbiano alcun influsso. Nella misura in cui la storia umana mostra delle regolarità di legge, esse sono quelle che gli uomini stessi hanno prodotto, e non vengono imposte d’autorità agli uomini da potenze che stanno al di fuori del loro potere d’influenza. Le leggi prodotte dagli uomini, che hanno potuto rendersi antiumane di fronte a loro presentandosi loro quasi come leggi della natura, sono perciò anche superabili dall’agire umano. La loro persistenza riposa sulla loro «opacità», sulla loro autonomizzazione di fronte alla dipendenza dell’uomo, ciecamente prigioniero della sua propria storia, che gli si fa incontro come una potenza estranea. Si potrebbe dire, quindi, che Marx è forzatamente «positivista» solo in quanto egli analizza dei processi della storia umana che si sono resi indipendenti fino a diventare delle leggi, in quanto, cioè, egli ricostruisce la storia dell’asservimento dell’uomo alla natura. Ma non è un positivista in quanto questo suo lavoro «positivista» mira a penetrare ed a rendere penetrabile ciò che non è stato penetrato – quindi, proprio ciò che «fonda» le leggi – recuperando le regolarità storiche divenute autonome al potere di disporre di colui che le ha prodotte, col che esse vengono «soppresse». Se l’esistenza di «leggi naturali» del processo storico si basa sulla «inconsapevolezza di coloro che vi hanno parte» (81), questa legalità naturale finisce con la fine dell’inconsapevolezza; a questo punto, infatti, al posto della determinazione della coscienza ad opera dell’essere, subentra quello dell’essere ad opera della coscienza. Questa fine è la fine della «preistoria», nel corso della quale gli uomini, senza averne coscienza, sono in preda a delle leggi naturali del corso storico, prodotto da loro stessi. In quanto analizza la preistoria, Marx è necessariamente un «positivista», ma egli analizza la preistoria per portare ad effettuazione la fine di essa, col che è escluso ogni positivismo, prodotto esso stesso della chiusura nella preistoria” [Kurl Lenk, ‘Marx e la sociologia della conoscenza’, Bologna, 1975] [(81) A. Schmidt, ‘Diskussionsbeitrag’, in ‘Kritik der politischen Ökonomie heute. 100 Jahre «Kapital»’, Frankfurt/M. – Wien, 1968]