“(…) come giustificare teoricamente la NEP [Nuova Politica Economica], quale definizione strategica darne? In rapporto al periodo precedente si trattava di una «ritirata» – e cioè non si rinunziava né ai fini né ai metodi del comunismo di guerra, che si consideravano tutt’al più prematuri, – oppure si era, al contrario, ripresa la linea più giusta adottata nella primavera del 1918? Da quest’ultimo punto di vista il comunismo di guerra non era altro che una scelta contingente in gran parte sbagliata (7). Lenin non opta chiaramente né per l’una né per l’altra di queste due idee; ma nel suo ultimo discorso tornerà al concetto di una «ritirata», di un indietreggiare per meglio prender la rincorsa (8). Tutto questo non forniva una spiegazione sufficiente della NEP. Lungo periodo di transizione, essa doveva essere necessariamente all’inizio una ritirata strategica, e poi una ripresa della marcia in avanti. Lenin cercò di mettere un po’ d’ordine in tale confusione avanzando la teoria del «capitalismo di Stato», che egli formulò nel suo scritto ‘Sull’imposta in natura’ al momento del lancio della NEP, senza che si fosse totalmente abbandonata la tesi dell’inizio della tappa socialista. Questo concetto, già utilizzato dopo la rivoluzione di febbraio e ancora all’inizio del 1918, s’ispira all’esperienza dell’economia di guerra tedesca, fortemente statalizzata e rigidamente controllata. Nel quadro dell’economia sovietica esisteva tuttavia una differenza sostanziale: lo Stato non era capitalista ma proletario, ed occupava direttamente importanti posizioni economiche. Lenin impiegava il termine di «capitalismo di Stato» in quanto dava per scontata la collaborazione del capitalismo russo e soprattutto del grande capitale straniero: pensava che la Russia necessitava di un lungo periodo di sviluppo capitalistico per assimilare i metodi di organizzazione e le competenze tecniche, che lo Stato operaio non possedeva ancora. Quest’ultimo doveva evidentemente restare costantemente vigilante e forgiarsi i necessari metodi di sorveglianza e di controllo. Lenin sperava dunque di costruire il socialismo «con mani straniere», pensando che queste non avrebbero disconosciuto l’interesse del profitto che in simile circostanza avrebbero potuto trarne. Un’altra particolarità di questa teoria contribuì a renderla accettabile per altri dirigenti, e tra essi, Preobrazenskij, Bucharin e anche Trockij, sebbene con molte riserve. Secondo Lenin in quel momento il principale nemico dello Stato non era il grande capitale, bensì il settore piccolo-borghese, anarchico, frazionato, sfidante qualsiasi pianificazione e qualsiasi disciplina statale. Soltanto il grande capitale offriva caratteristiche utili al progresso, e precisamente la sua capacità di organizzare in grande scala, la sua tendenza a pianificare, il senso della disciplina. E’ per tali ragioni che lo Stato operaio doveva concludere con esso un’alleanza per combattere l’influenza perniciosa della piccola borghesia oscillante. Lenin afferma: «Si tratta di un contratto, di un blocco, di un’alleanza del potere statale sovietico, cioè proletario, col capitalismo di Stato, contro l’elemento piccolo-proprietario (patriarcale e piccolo borghese)», ed in un testo anteriore dello stesso anno cita un giudizio già avanzato nel 1918, precisamente che: «…bisogna denunciare l’errore di coloro che non vedono le condizioni economiche piccolo-borghesi e l’elemento piccolo-borghese come il ‘principale’ nemico del socialismo» (9)” [(7) Cfr. Carr, ‘La rivoluzione bolscevica’, Einaudi, Torino, 1964, pp. 680 sgg.; (8) Socinenija, vol. XLV, p. 302; (9) Soc., vol. XLIV, p. 108, e vol. XLIII, p. 206 [Cfr. i passi sopra citati nell’articolo di Lenin ‘Sull’imposta in natura’, pubblicato in opuscolo nel maggio 1921, in ‘Opere’, vol. XXXII, pp. 309-44] [Lenin-Bibliographical-Materials] [LBM*]