“La situazione italiana verso la metà del secolo scorso era veramente complessa e presentava aspetti particolari tali da non poter essere avvicinati a quelli di altri Paesi europei. Essa trasse in inganno anche osservatori acuti che la giudicavano in base ad altre esperienze o partendo da altri presupposti: fu, questo, il caso di Marx ed di Engels, dei quali sono stati pubblicati recentemente tutti gli scritti relativi al Risorgimento italiano (1). Il 20 febbraio 1848 lo Engels, dopo la notizia della concessione della costituzione da parte di Ferdinando II a Napoli e di Carlo Alberto a Torino, scriveva che la borghesia si era posta decisamente alla testa del movimento nazionale avviando la sua costituzione in classe e che una rivoluzione a Napoli aveva raggiunto «il suo obiettivo una volta che [fossero state] conquistate istituzioni decisamente borghesi». Poco dopo, il 1° giugno, commentando la vittoria del Borbone sui costituzionali nella giornata del 15 maggio, affermava che i lazzaroni, «che sono stati sempre sanfedisti», si erano alleati in quella occasione con il sovrano e con i mercenari borbonici per sconfiggere la guardia nazionale. Eppure, proprio con quel colpo di Stato assolutista, Ferdinando di Borbone aveva posto «la prima pietra della Repubblica italiana. Già la Calabria è in fiamme, un governo provvisorio è proclamato a Palermo; anche gli Abruzzi insorgeranno, gli abitanti di tutte le esauste province marceranno su Napoli e, uniti al popolo della città, trarranno vendetta del regal traditore e dei suoi brutali lanzichenecchi». Come si vede, peraltro, poco dopo avere affermato che i ceti popolari della città, i «lazzaroni», erano sanfedisti, lo Engels esprime la speranza e la certezza che proprio questo popolo (a meno che non si debba dare alla parola ‘popolo’ il significato che allora le dava il Mazzini, cioè di piccola e media borghesia, il che però, sembra molto improbabile) possa e voglia riprendere la lotta contro il Borbone e sconfiggerlo con una estesa e generale ribellione. Ed era appunto tale fiducia che dimostrava come né lo Engels né il Marx avessero capito bene la situazione italiana; forse, fra i due, chi meno l’aveva capita era il Marx, il quale cercava di applicare ad essa i suoi schemi e le sue impostazioni, senza rendersi esattamente ragione di quanto, in realtà, quella situazione fosse diversa. Infatti, quando parlava, il 21 settembre del ’48, di «proletariato europeo affratellato» a Vienna come a Parigi, a Berlino come a Francoforte, a Londra come a Milano, evidentemente non faceva troppa attenzione alle caratteristiche peculiari dei movimenti rivoluzionari dei vari Paesi. Di battaglie del proletariato si poteva allora parlare soltanto per Parigi, mentre in tutti gli altri Paesi non era stato affatto posto il problema «dell’abbattimento del dominio politico della borghesia»; e ciò tanto meno in Italia dove, come giustamente osservava lo Engels, le rivoluzioni si presentavano essenzialmente come rivoluzioni borghesi. Perciò, non era vero che il popolo «generalmente inerme», dovesse «combattere non soltanto contro il potere dello Stato burocratico e militare organizzato, assunto dalla borghesia, ma anche contro la stessa borghesia armata». Non era vero, perché in Italia il ’48-’49 ha rappresentato lo sforzo della borghesia di abbattere il predominio dei ceti feudali e di sostituirsi ad essi come nuova classe dirigente (il che, come è noto, si chiuse con una sconfitta, con un fallimento, solo apparente, peraltro, perché gli eventi di quei due anni praticamente eliminarono i ceti feudali: nel ’52 il Cavour realizzando, in Piemonte, il ‘connubio’, dimostrò di avere appreso tale lezione, egli fece infatti assumere al Regno di Sardegna mediante l’accordo con il Rattazzi, una funzione di guida nel processo di costruzione della nuova nazionalità e gli occhi di tutta la borghesia italiana si volsero a quell’esempio). Perciò, la lotta del proletariato contro la borghesia era assolutamente prematura per l’Italia, dove il proletariato non si presentava come l’elemento rivoluzionario. Lo Engels tornava sull’impostazione del Marx il 5 aprile del ’49, dopo la sconfitta di Novara e dopo quella che poteva apparire la disfatta definitiva della rivoluzione italiana. Egli allora scrisse che la borghesia era andata incontro esultando agli Austriaci: «Queste simpatie austriache della borghesia rivelano un notevole progresso nello sviluppo italiano. Esse dimostrano che gli entusiasmi nazionalistici [forse sarebbe stato meglio tradurre ‘nazionali’] di tutte le classi sono finiti, che i movimenti dell’autunno e dell’inverno hanno portato alla luce l’antagonismo di classe, hanno spinto il proletariato e i contadini in aperta opposizione contro la borghesia e hanno messo in pericolo l’esistenza politica della borghesia a tal punto che essa è stata costretta ad allearsi col nemico esterno». Di conseguenza, lo Engels (che dimostrava in tal modo di avere appreso molto bene gli insegnamenti del suo compagno) poteva affermare che avendo la borghesia tradito la causa della rivoluzione, in Piemonte, come già prima a Roma e a Firenze, «la lotta per l’indipendenza [era] diventata in pari tempo una lotta contro la borghesia italiana». Ed anche questo non era affatto vero, perché la scissione nel campo rivoluzionario non era avvenuta, in quei due anni, fra proletariato e contadini da un lato e borghesia dall’altro, bensì tra piccola borghesia e media borghesia radicale e alta borghesia, unita quest’ultima a quella nobiltà liberale che si era schierata inizialmente a favore della rivoluzione. Ed anche Carlo Alberto non aveva rivelato paura della «sollevazione in massa, della insurrezione generale del popolo», cioè dei ceti popolari, ma diffidenza ed anche timore delle tendenze repubblicane della piccola borghesia, che, nel ’49, aveva imposto la ripresa della guerra contro l’Austria. Se paura degli strati più umili ci fu nella borghesia del ’48 essa fu piuttosto un riflesso di quanto stava accadendo in Francia, le cui vicende sembrarono preannunciare quella che sarebbe stata la lotta politica e sociale degli anni seguenti. Ma, per allora, questo problema era ancora scarsamente sentito dalla nostra borghesia che, anche se appariva divisa da profonde fratture era tuttavia unita di fronte al pericolo reazionario delle masse popolari. Perché veramente queste ultime si trovavano su posizioni reazionarie: esse infatti rimpiangevano la vecchia società feudale che offriva alcune istituzioni ed alcuni vantaggi (quali, ad esempio, il pascolo comune e la conduzione a mezzadria in luogo di quella ad affittanza propria del sistema capitalistico o delle corporazioni nelle città) che consentiva di condurre una vita meno precaria. (…)” [Franco Catalano, ‘Le classi popolari nel Risorgimento’, ‘Problemi del socialismo’, n. 6, giugno 1960] [Franco Catalano, ‘Le classi popolari nel Risorgimento’, ‘Problemi del socialismo’, n. 6, giugno 1960] [(1) K. Marx F. Engels, ‘Sul Risorgimento italiano’, a cura di E. Ragionieri, Editori Riuniti, Roma, 1959]
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- Articolo pubblicato:3 Settembre 2017