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“L’errata concezione del mercato estero si unisce comunemente, nei romantici, a cenni sulla «particolarità» della situazione internazionale del capitalismo di un dato paese, sulla impossibilità di trovare un mercato, ecc.; tutti argomenti che tendono a «distogliere» i capitalisti dalla ricerca di un mercato estero. Dicendo «cenni», d’altronde, noi non ci esprimiamo con precisione, poiché il romantico non dà una fondata analisi effettiva del commercio estero del paese, del suo movimento ascendente nel campo di nuovi mercati, della sua colonizzazione, ecc. Lo studio e la spiegazione del processo reale non lo interessa affatto; egli ha bisogno solo della ‘morale contro questo processo’. Perché il lettore possa convincersi della completa identità di questa morale negli attuali romantici russi e nel romantico francese, prenderemo alcuni esempi dalle argomentazioni di quest’ultimo. Abbiamo già visto come Sismondi facesse balenare ai capitalisti il pericolo che essi non avrebbero trovato un mercato. Egli , però, non si limitò solo a questo; affermò anche che «il mercato mondiale è già sufficientemente rifornito» (II, 328), dimostrando l’impossibilità di seguire la via del capitalismo e la necessità di sceglierne un’altra… assicurò agli imprenditori inglesi che il capitalismo non avrebbe potuto occupare tutti gli operai resi liberi dal sistema delle ‘farms’, nell’agricoltura (I, 255-6). «Coloro ai quali verranno sacrificati gli agricoltori troveranno qualche vantaggio in ciò? Gli agricoltori sono i più vicini e i più fedeli consumatori dei prodotti delle manifatture inglesi; la mancanza del loro consumo inferirebbe all’industria un colpo più fatale della chiusura di uno dei più grossi mercati esterni» (I, 256). Sismondi assicurò ai ‘farmers’ inglesi che essi non avrebbero potuto sostenere la concorrenza del contadino povero polacco al quale il grano non costa quasi nulla (II, 257), e che li minacciava l’ancor più temibile concorrenza del grano russo proveniente dei porti del Mar Nero. «Gli americani» egli esclamava «hanno seguìto un nuovo principio: produrre senza tenero conto del mercato (‘produire sans calculer le marché’) e produrre il più possibile», ed ecco «la caratteristica del commercio degli Stati Uniti: da un angolo all’altro del paese eccedenza di merci di ogni genere sul bisogno di consumo… continui fallimenti sono il risultato di questa eccedenza di capitali commerciali che non possono essere scambiati con reddito» (I, 455-6). Buon Sismondi! Cosa direbbe dell’America di oggi, dell’America che si è sviluppata in modo così grandioso proprio mediante quel «mercato interno», che, secondo la teoria dei romantici, doveva «contrarsi!». La crisi. La terza conclusione che Sismondi trae dall’errata teoria di A. Smith da lui plagiata, sta nella sua teoria della crisi. Dalla concezione di Sismondi che l’accumulazione (l’aumento della produzione in generale) è determinata dal consumo e dalla errata spiegazione della realizzazione del prodotto sociale complessivo (ridotto alle quote del reddito spettanti rispettivamente agli operai e ai capitalisti) è scaturita, in modo naturale ed inevitabile, la tesi che le crisi si spiegano con la mancata corrispondenza tra produzione e consumo. E Sismondi si attiene interamente a questa spiegazione. Anche Rodbertus l’ha accolta, dandole però una formulazione leggermente diversa; secondo Rodbertus le crisi sono dovute al fatto che con l’aumento della produzione diminuisce la parte del prodotto spettante agli operai, il che significa che anche Rodbertus divide tutto il prodotto sociale complessivo in salario e «rendita» (secondo la sua terminologia la «rendita» è il plusvalore, cioè l’insieme di profitto e rendita fondiaria), ricadendo nello stesso errore di A. Smith. L’analisi scientifica dell’accumulazione nella società capitalistica (6) e della realizzazione del prodotto ha scalzato tutte le fondamenta di questa teoria, dimostrando che proprio nei periodi che precedono le crisi il consumo degli operai si eleva, che l’insufficiente consumo (che dovrebbe spiegare le crisi) è esistito con i più diversi regimi economici, mentre le crisi sono un tratto caratteristico di un solo regime: quello capitalistico. Essa spiega le crisi con un’altra contraddizione, precisamente con la contraddizione fra il carattere sociale della produzione (resa sociale dal capitalismo) e il modo privato, individuale d’appropriazione. La profonda differenza di queste teorie potrebbe sembrare tanto chiara da non aver bisogno di altre spiegazioni, tuttavia, dobbiamo soffermarci su di essa più particolareggiatamente, poiché proprio i seguaci russi di Sismondi cercano di ‘cancellare’ questa differenza e di confondere le cose. Le due teorie di cui parliamo danno due spiegazioni delle crisi affatto diverse. (…) La prima (…) vede la radice del fenomeno ‘fuori’ della produzione (…); la seconda vede la radice del fenomeno proprio nelle condizioni in cui avviene la produzione. In altri termini: la prima spiega le crisi con il sottoconsumo (‘Underkonsumation’) la seconda con l’analisi della produzione” [Lucio Colletti, ‘Il marxismo e il «crollo» del capitalismo’, Bari, 1977] [(6) In connessione con la teoria che il prodotto complessivo, nell’economia capitalistica, consta di due parti, si trova in A. Smith e negli economisti successivi l’errata concezione dell’«accumulazione del capitale singolo». Precisamente essi insegnano che la parte del profitto accumulata è interamente spesa per il salario mentre, in realtà, essa è spesa: 1) per il capitale costante e 2) per il salario. Sismondi ripete anche questo errore dei classici]