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“E’ noto che «Marx prestò poca attenzione ai problemi coloniali», la I Internazionale «li ignorò» e la II Internazionale «rimase per lungo tempo egualmente indifferente» (5), data la situazione storica della seconda metà dell”800 e dato che, coerentemente a tale situazione, il socialismo marxistico non poteva non essere una ideologia centrata sui rapporti (lotta di classe) tra il proletariato industriale e la società capitalistica. Solo dall’inizio del ‘900 circa il problema coloniale si venne imponendo e nella realtà concreta e nell’attenzione ad esso portata dai marxisti, finché acquistò la massima importanza, come si è detto, in conseguenza della prima guerra mondiale e dei suoi sviluppi. Nella primavera del 1916, a Zurigo, Lenin scriveva ‘L’imperialismo come fase suprema del capitalismo’, nel quale l’acquisizione e lo sfruttamento delle colonie, mediante gli investimenti redditizi del capitale finanziario, sono descritti come l’essenza del capitalismo nella sua fase, appunto, suprema. E’ nelle colonie, dunque, che si apre un nuovo fronte di lotta tra il capitalismo ed il movimento socialista. Già indirizzandosi al II Congresso panrusso delle organizzazioni comuniste musulmane, sul finire del 1919, Lenin aveva detto che «la rivoluzione socialista non sarà soltanto o principalmente una lotta dei proletari rivoluzionari in ciascun paese contro la sua borghesia – no, sarà una lotta di tutte le colonie ed i paesi oppressi dall’imperialismo, di tutti i paesi dipendenti, contro l’imperialismo internazionale» (6). L’anno seguente, nel luglio 1920, al II Congresso della III Internazionale si discusse la linea da seguire riguardo al ‘problema nazionale e coloniale’, in seno ad una commissione nominata con questo compito specifico, alla quale furono sottoposte due serie di tesi, elaborate rispettivamente da Lenin e dall’indiano Roy. La differenza essenziale, fra Lenin e Roy, verteva sulla tattica da adottare: il russo sosteneva che nei paesi arretrati i comunisti dovevano essere preparati ad appoggiare «un movimento di liberazione democratico-borghese» e specialmente a sostenere i contadini contro i grandi proprietari fondiari e «contro tutte le manifestazioni e sopravvivenze del feudalesimo», beninteso sempre evitando ogni confusione ideologica; l’indiano, distinguendo tra un movimento nazionalista democratico-borghese che cercava l’indipendenza all’interno dell’ordine capitalistico e «una lotta dei contadini senza terra contro ogni forma di sfruttamento», affermava che compito del Comintern era di resistere ad ogni tentativo di subordinare il secondo tipo di movimento al primo, provvedendo a creare delle «organizzazioni comuniste di operai e contadini», poiché «la forza reale, il fondamento, del movimento di liberazione nelle colonie non può essere costretta nell’angusta cornice del nazionalismo democratico-borghese», anche se « la rivoluzione nei paesi coloniali non sarà dapprima una rivoluzione comunista». Il risultato delle discussioni, in commissione ed in seduta plenaria del Congresso, fu che vennero approvate tanto le tesi di Lenin quanto quelle di Roy, ma poi queste ultime, come dice il Carr, «furono dimenticate», mentre «le tesi di Lenin divennero da allora in poi la base accettata delle teoria e pratica bolscevica riguardo al problema nazionale e coloniale» (7). E fu precisamente il leninismo ad esercitare la sua influenza sulla Cina, che stava allora attraversando la gravissima crisi derivante dalla penetrazione imperialistica straniera e dalla rivoluzione del 1911 (essa stessa reazione alla penetrazione), con tutti gli sviluppi avvenuti nel corso del decennio successivo alla rivoluzione. Osserva il Borsa che «è il leninismo e non il marxismo che ha aperto la strada alla diffusione dell’ideologia comunista in Cina ed in Asia: è la teoria della rivoluzione di Lenin ed in particolare la sua teoria della rivoluzione nei paesi coloniali e semi-coloniali, così come risulta dalla sua opera ‘L’imperialismo come stadio ulteriore del capitalismo’, e dalla relazione da lui presentata al 2° Congresso della Terza Internazionale, in polemica col marxista ortodosso delegato indiano Manabendra Roy» (8). La teoria di Lenin, infatti, «apriva una via d’uscita a coloro che in Cina, come negli altri paesi asiatici, si erano accostati pieni di speranza alla civiltà occidentale ed erano poi stati imbarazzati da taluni aspetti di tale civiltà, che ne contraddicevano l’ispirazione fondamentale, come il colonialismo e lo sfruttamento imperialistico»; così, nelle condizioni in cui versava la Cina intorno al 1920, «Sun Yat-sen ed una parte dei rivoluzionari cinesi si rivolsero al marxismo-leninismo e alla Russia sovietica» (9). Se Sun Yat-sen rimase ad un socialismo di ispirazione illuministico-riformistica e non fu quindi un marxista, altri invece giunsero al marxismo, o meglio al leninismo, nella maniera che si è detta; così una dozzina di delegati di vari gruppi già esistenti in diverse località cinesi si riunirono a congresso a Shanghai, nel luglio del 1921, alla presenza d’un rappresentante della III Internazionale e fondarono il partito comunista cinese (PCC). Non è inutile ricordare la partecipazione a questo I Congresso del «meno autorevole dei dodici, un giovane maestro-contadino dell’Hunan che aveva pochi contatti e minore esperienza del proletariato urbano, ma viva pratica dei problemi contadini ed una profonda fiducia nelle masse rurali, specialmente nello strato più povero di esse: Mao Tse-tung» (10). Da quel momento, dunque, si instaura il duplice rapporto, tra gli stati e i partiti, con le inevitabili interferenze tra il momento politico e quello ideologico, di cui si è già detto al principio” [Ferdinando Vegas, ‘Aspetti ideologici e politici del dissidio cino-sovietico’, Critica Storica, n. 5 30 settembre 1964] [(5) E.H. Carr, ‘The Bolshevik Revolution, 1917-1923’, vol. III, p. 229; (6) Ivi, p. 236; (7) Ivi, p. 257; v. pp. 251-57 sulla discussione al II Congresso del Comintern, con le cit. testuali da Lenin e Roy da noi riferite; (8) G. Borsa, ‘L’Estremo Oriente fra due mondi’, Bari, 1964, p. 243; (9) Ivi, p. 220; (10) E. Collotti Pischel, ‘Le origini ideologiche della rivoluzione cinese’, Torino, 1958, p. 171] [Lenin-Bibliographical-Materials] [LBM*]