“Al di là della rivoluzione del 1830, alla quale Tocqueville dedica poche pagine, la rivoluzione del 1848 gli appare come la continuazione dei fatti del 1789. La Francia non si è mai normalizzata, non ha raggiunto la tranquillità che i costumi democratici assicurarono alla società americana. Ai suoi occhi, la rivoluzione del 1848 simboleggia l’impossibile alleanza della libertà e dell’uguaglianza, in una società di natura conflittuale. Anche questa è determinata da cause primarie e da cause secondarie. Tra le seconde Tocqueville ricorda l’incapacità di Luigi Filippo, la repressione successiva, la confusione dell’opposizione: formeranno l’«accidente» che renderà mortale la «malattia», e anche «imprevista» (69), come avvenne prima per la rivoluzione del 1789. Si può osservare che Tocqueville passa sotto silenzio, tra le cause secondarie, la crisi economica, che, come nel 1789, precede lo scoppio della rivoluzione (70). Tra le cause generali Tocqueville mette in evidenza soprattutto la rivoluzione industriale che comporta una forte concentrazione della popolazione operaia a Parigi, il malessere democratico da cui è travagliata, la violenza delle ideologie che combattono apertamente l’ordine esistente e auspicano l’affermazione di un sistema diverso, il deterioramento della classe dirigente, disprezzata da tutti, l’accentramento totale che preannuncia una brusca presa del potere, e infine «la mobilità di tutto, istituzioni, idee, costumi e uomini in una società in movimento, che è stata sconvolta da sette grandi rivoluzioni in meno di sessant’anni… Queste furono le cause generali, senza le quali la rivoluzione di febbraio sarebbe stata impossibile» (71). Sia la rivoluzione del 1789 sia quella del 1848 sono dunque il prodotto di molte cause. Ma tra tutte una, come nel 1789, sembra determinante: le teorie socialiste, che svolgono ora il ruolo di quelle dei filosofi illuministi, attaccano sempre più violentemente la società e il suo più solido fondamento, il diritto di proprietà. Queste teorie non sono nate «per caso», non sono per niente il frutto di un «capriccio passeggero». Scatenando le passioni, fanno scoppiare la guerra tra le diverse classi e penetrano profondamente lo spirito delle masse (72). Queste teorie, che vengono accolte così favorevolmente, sono, come quelle degli illuministi, il frutto di una società malata. Mettono sotto accusa l’ineguale distribuzione della proprietà privata, caratteristica della società industriale non democratica. Tocqueville può così fare la previsione che «presto la lotta politica sarà tra quelli che hanno e quelli che non hanno; il grande campo di battaglia sarà la proprietà e i problemi politici principali riguarderanno modifiche più o meno profonde da apportare al diritto di proprietà» (73). Questo antagonismo assume un aspetto ancora più grande se si considera l’estrema concentrazione della ricchezza che l’accompagna. Infatti la classe dirigente prende «un’aria di industria privata, perché tutti i suoi membri pensano agli affari pubblici solo per rivolgerli a profitto degli affari privati, dimenticando facilmente nel loro modesto benessere il popolo… Allora il governo aveva preso alla fine l’atteggiamento di un’azienda industriale, nella quale tutte le operazioni vengono effettuate in vista dei benefici che ne possono derivare ai membri» (74). Perciò lo stato è un puro strumento della classe dirigente. Non si può rimanere stupiti per la somiglianza che esiste tra questa analisi e quella svolta da Marx nelle ‘Lotte di classe in Francia’ (75). Come Marx, Tocqueville sottolinea come la «guerra di classe» abbia per protagonisti da una parte, i proprietari dei mezzi di produzione alleati all’alta finanza, e dall’altra quelli «che lavorano colle proprie mani» (76). Bisogna anche rilevare che le rivoluzioni che segnano la realizzazione della «guerra di classe» in una società industriale non democratica sono assai simili a quelle che si generano in società democratiche industriali, prese come modello. Così la società industriale avrà come conseguenza ineluttabile la «guerra di classe» che provoca delle rivoluzioni, e questo indipendentemente dallo stato dei costumi. Le istituzioni politiche, le credenze o l’accentramento si trovano così relegate in secondo piano a vantaggio dell’industria. Il conflitto che mette gli uni contro gli altri, i proprietari e quelli «che lavorano con le loro mani», si aggiunge a una grave crisi politica. Poiché la vita politica si concentra completamente presso la classe dirigente a causa della distinzione tra paese legale e paese reale, il popolo ne viene del tutto estromesso. Questa separazione, che ha anche attirato l’attenzione di Marx, ha come conseguenza l’indebolimento estremo e l’immobilismo del mondo politico che non conosce nessuna vera opposizione d’interessi a causa della sua grande omogeneità sociale (77). Dunque le masse popolari non sono più legate alla vita politica e così si costruiscono un loro proprio mondo. A questo quadro Tocqueville aggiunge una nota di moralismo: la classe dirigente, per il suo egoismo e i per i suoi vizi, è diventata indegna di conservare il potere agli occhi del popolo. Allora si leva il vento della rivoluzione. Come nel 1789, gli uomini cominciano una rivoluzione senza rendersene conto, imitando i grandi antenati del 1789 e ispirandosi, come osserva anche Marx (78), alle tradizioni passate che servono così di modello alla loro condotta. Di colpo il corpo sociale si sfascia. Bisogna qui insistere su un breve testo particolarmente originale di Tocqueville: «Poiché la rivoluzione aveva esteso il possesso della terra all’infinito, il popolo sembrava far parte di questa grande famiglia (…). L’esperienza ha dimostrato che questa unione non era così intima come sembrava, e che i vecchi partiti e le diverse classi si erano sovrapposte più che confuse: la paura aveva agito su di essi come avrebbe potuto agire una pressione meccanica su dei corpi duri, che sono obbligati a aderire tra loro finché opera questa pressione, ma che si separano non appena questa viene a cessare» (79). Queste parole meritano di essere esaminate con attenzione tanto sembrano pertinenti. Implicano che in una società non democratica le diverse classi coesistono solo grazie al potere esterno che colla forza le tiene insieme. Quando il potere si vede attaccato da tutte le parti, quando la sua pressione si allenta, la società si sfascia, entra in agitazione rivoluzionaria mentre le classi si affrontano con violenza. Questa «meccanica», che presuppone che lo stato rimanga estraneo alla società, sembra tuttavia abbastanza incompatibile con la teoria sostenuta da Tocqueville, dello stato come strumento della classe dirigente. Invece questa visione sembra molto ben combaciare con la situazione che la Francia conoscerà con Napoleone III. Per illustrare la separazione dello stato dalla società, Tocqueville analizza accuratamente lo sviluppo della burocrazia, che beneficia di una lunga tradizione di accentramento. Come Marx (80), dimostra in questo modo l’autonomia raggiunta dallo stato, autonomia che gli permette di tenere insieme classi antagonistiche. Infatti le classi dirigenti e quella «che lavora colle sue mani» non hanno più nessun interesse comune. Mentre le prime si arricchiscono, la seconda resta nella povertà” [Pierre Birnbaum, ‘La sociologia di Tocqueville’, 1973] [(69) A. de Tocqueville, ‘Souvenirs’, cit., pp. 31, 41 e 84-85; (70) Si veda E. Labrousse; «1848-1830-1789. Comment naissent les révolutions», in ‘Actes du Congrés historique du centenaire de la Révolution de 1848’, Paris, Presses Universitaires de France, 1948, pp. 7-9; (17) A. de Tocqueville, ‘Souvenirs’, cit., p. 85; (72) Ibid., p. 37; (73) Ibid., p. 37. Si veda anche p. 96; (74) Ibid., p. 31; (75) Marx, ‘Les luttes de classes en France’, Paris, Ed. Sociales, 1952, pp. 25-26 (trad. it. ‘Le lotte di classe in Francia’, Roma, Editori Riuniti, 1970, pp. 103-105). Anche se per Marx una parte della borghesia industriale fa parte dell’opposizione; (76) A. de Tocqueville, ‘Souvenirs’, c
it., p. 91; (77) Ibid., cit, pp. 34-35. Vedere l’opera di Tudesq, ‘Les grand notables en France (1840-1849)’, Paris, Presses Universitaires de France, 1946. L’autore studia la mentalità collettiva dei notabili di quest’epoca, sottolinea la chiusura della vita politica e dimostra la forte concentrazione dei beni che ad essa si accompagna. Egli osserva tuttavia che «in mancanza di una comunione ideologica, la prosperità economica doveva avvicinare le diverse frazioni delle classi dirigenti», cit., p. 435. Lo stesso, a p. 129, nel libro II della prima parte, capp. 1-3; nella terza parte, i capitoli 1-2 del libro II. Si veda anche J. Lhomme, ‘La grande bourgeoisie au pouvoir (1830-1880)’, Paris, Presses Universitaires de France, 1960; (78) A. de Tocqueville, ‘Souvenirs’, cit., p. 75. Si veda anche Marx, ‘Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte’, Roma, Editori Riuniti, 1964; (79) Ibid., p. 107. Si veda anche a p. 36, dove Tocqueville parla della «macchina ingegnosa»; (80) Per un confronto tra Marx e Tocqueville su questo punto si veda R. Aron, ‘Le tappe del pensiero sociologico’, trad. it., cit., pp. 275-276. E. Gargan, ‘Alexis de Tocqueville: the critical years, 1848-1851’, New York, The Catholic University of America Press, 1955, pp. 298-301. Gargan pensa che Marx sia stato  influenzato dalle pagine di Tocqueville sull’accentramento statale. D’altra parte Marx cita esplicitamente Tocqueville solo quando ricorda la relazione da questi tenuta all’Assemblea nazionale nel luglio 1851. Marx, ‘Il 18 Brumaio’, trad. it., cit.; (81) A. de Tocqueville, ‘Souvenirs’, cit., p. 116; (2) A. de Tocqueville, “Discorso sul diritto al lavoro”, in op. cit., p. 544; (84) A. de Tocqueville, ‘Souvenirs’, cit., p. 96]