“Secondo un recente articolo di “Business Week” «l’economia americana poggia su un cumulo di 2500 miliardi di debito, la montagna di tutte le automobili, le case, le fabbriche, le macchine che hanno costituito l’economia più ricca della storia mondiale». Tuttavia «dappertutto si manifestano segni di tensione: i rapporti fra indebitamento-fondi propri della impresa e prestiti-depositi delle banche commerciali si allontanano dai limiti normali; il rimborso del credito al consumo assorbe una quota record del reddito disponibile; il colossale mercato immobiliare è in una situazione disastrosa… Mai l’economia del credito («The debt economy») è apparsa più vulnerabile, con un numero allarmante di persone che prendono e danno a prestito in una situazione precaria» (11). Non si tratta che di una descrizione della pratica capitalistica americana nei tempi recenti. Per spiegarla bisognerebbe analizzare le condizioni finanziarie dell’accumulazione del capitale produttivo, tenendo conto delle differenze e dei rapporti fra moneta, credito e capitale-denaro. Lo sviluppo del credito al di là dei «limiti normali» apparirebbe allora nel contempo come uno strumento di finanziamento dell’accumulazione attraverso la centralizzazione del «capitale-denaro a prestito» e, d’altra parte, come una base di sviluppo di una circolazione particolare di crediti nominali che si gonfia nel corso di determinati periodi come se il capitalismo potesse non solo affrancarsi definitivamente dalle costrizioni della realizzazione delle merci, ma anche da quelle della proprietà privata del capitale. In questa prospettiva, il credito rinvia da una parte all’accumulazione del capitale-denaro, e dunque al processo della produzione e della circolazione capitalistiche, ma, dall’altra, anche alla formazione di quello che Marx chiama il «capitale fittizio», composto di titoli di credito diversi, di titoli su una produzione futura e il cui «valore monetaria o valore capitale non costituisce capitale, come ad es. nel caso del debito pubblico, oppure è determinato in modo completamente indipendente dal valore del capitale reale che essi rappresentano» (12). Infatti, anche se il capitale-denaro non è posseduto ma preso a prestito dal capitalista industriale, anche se a fatto lega con il credito, non coincide con quest’ultimo che comporta necessariamente una parte di «capitale fittizio». Ciò che Marx dice per le società per azioni è vero per tutto il sistema del credito: «E’ la soppressione del capitale… nell’ambito del modo di produzione capitalistico stesso». Quando l’accumulazione capitalistica incontra degli ostacoli al suo sviluppo questo urta i rapporti di credito e pone prima o poi il problema della conversione dei titoli di credito in moneta di regolamento. E’ quanto si è manifestato in maniera particolarmente netta negli Stati Uniti nel 1974 quando si sono combinate una crisi di sovrapproduzione, delle tensioni finanziarie, una forte ascesa dei prezzi e una grande debolezza del dollaro sul mercato dei cambi. Il rapporto di produzione fondamentale fra capitale e lavoro, la lotta di classe, possono essere dimenticati nella logica di una tale analisi? Certamente no: né gli ostacoli recentemente incontrati dall’accumulazione capitalistica né l’accelerazione del tasso di inflazione possono essere analizzati in maniera puramente «economica», senza tener conto dei rapporti di classe. Adottare la «logica del Capitale» significa semplicemente darsi i mezzi per condurre «la critica dell’economia politica» in tutti i settori, compresi quelli della moneta e del finanziamento” [Suzanne de Brunhoff, ‘Punti di vista marxisti sulla crisi monetaria’, ‘Primo Maggio’, Milano, n. 6, 1975-76] [(11) Articolo citato, p.4; (12) Karl Marx, ‘Il Capitale’, vol. III, 2, Edizioni Rinascita, Roma, 1955, p. 553]