‘E’ assai conosciuto il giudizio di Gramsci sulla «Voce» negli appunti del carcere. E’ un giudizio largamente positivo, che nasce dal riconoscimento del valore dell’impegno vociano di «democratizzare» la cultura («Il De Sanctis doveva formare uno stato maggiore culturale, la ‘Voce’ volle estendere agli ufficiali subalterni lo stesso tono di civiltà e perciò ebbe una funzione, lavorò nella sostanza…») (22) e della sua lotta per creare «una nuova cultura», «un nuovo modo di vivere» (23) evidentemente in senso democratico e progressista (come è chiarito anche da questo accenno polemico contro Prezzolini: «Se Prezzolini avesse coraggio civile potrebbe ricordare che la sua ‘Voce’ ha certamente molto influito su alcuni elementi socialisti ed è stata un elemento di revisione») (24). L’apprezzamento di Gramsci non è casuale perché mostra l’importanza che egli attribuiva alla lotta per una «nuova cultura» condotta dagli intellettuali “tradizionali” e quindi ad un impegno di tipo tradizionalmente etico-culturale, ma meno retorico, più adatto alle esigenze di sviluppo democratico del paese e incline a svolgere anche compiti divulgativi, di educazione di una parte delle masse o, meglio, del loro strato superiore (la piccola borghesia, particolarmente intellettuale: «gli ufficiali subalterni»). Il ruolo degli intellettuali è quello di essere i mediatori della società civile, funzionari in una certa misura indipendenti dalle superstrutture (25), momento essenziale di trasmissione di quel consenso che può essere conquistato solo grazie ad una egemonia culturale, e che è tanto più necessario in quanto l’egemonia sulla società civile realizzata attraverso gli intellettuali progressivi (e cioè gli intellettuali organici della classe operaia e gli intellettuali tradizionali, che possono divenire loro alleati) è vista come condizione necessaria per l’avvento del socialismo. Ma in questa maniera Gramsci, nonostante i continui richiami materialistici volti ad individuare il concreto gruppo sociale di cui l’intellettuale è espressione, da una lato sembra accentuare la funzione parzialmente autonoma degli intellettuali in quanto diffusori di ideologie, dall’altro privilegia il momento della ricerca della continuità con la cultura borghese (e sia pure di quella a suo giudizio più avanzata) su quello della critica dell’ideologia (e della cultura borghese). Egli cioè coglie il ruolo dinamico che gli intellettuali possono avere nella società ‘in quanto intellettuali’ (e non in quanto possibili portatori di istanze politiche rivoluzionarie). Questa ipervalutazione degli elementi sovrastrutturali (e di quello ‘pacifico’ e ‘democratico’ della conquista del consenso, chiaramente privilegiato rispetto al momento della rottura rivoluzionaria) oggettivamente è un motivo revisionistico (quale poi sia su di esso il nostro giudizio è altra questione) rispetto alla teoria marxiana e leniniana della presa del potere e del rapporto fra conquista del consenso ideologico e rivoluzione socialista (26). Esso ha tuttavia una propria motivazione politica nel carattere ancora arretrato dell’organizzazione della cultura nell’Italia di quegli anni, in cui per la mancanza di una vera industria culturale, per la debolezza degli strumenti di persuasione di massa direttamente gestiti dal sistema capitalistico (scuole, giornali, radio, cinema, ecc.) era ancora possibile per l’intellettuale ricoprire quello spazio politico-culturale, di coniatore e diffusore di ideologie, che oggi lo sviluppo capitalistico ha reso ormai impraticabile, trasformando l’uomo di cultura in un tecnico salariato, addetto alla propagazione dell’ideologia dominante’ [Romano Luperini, Letteratura e ideologia nel primo novecento italiano. Saggi e note sulla “Voce” e sui vociani’, Pisa, 1973] [(22) A. Gramsci, ‘Letteratura e vita nazionale’, Torino, 1954, p. 8; (23) ivi, p. 9; (24) ivi, p. 166; (25) A. Gramsci, ‘Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura’, Torino, 1949, p. 9: «il rapporto fra gli intellettuali e il mondo della produzione non è immediato, come avviene per i gruppi sociali fondamentali, ma è ‘mediato’, in diverso grado, da tutto il tessuto sociale, dal complesso delle superstrutture, di cui appunto gli intellettuali sono i ‘funzionari’»; (26) Per Marx l’obiettivo che giustamente è stato attribuito a Gramsci (quello di «isolare… ideologicamente la classe dominante»: cfr. J. Texier, relaz. in AAVV, ‘Gramsci e la cultura contemporanea’, I, Roma, 1969) sarebbe stato certamente utopistico, dato che per lui le idee dominanti in una società sono quelle della classe dominante e la cultura della nostra epoca non può che essere la cultura borghese. Nelle grandi masse della popolazione il passaggio da un’ideologia borghese al punto di vista del proletariato rivoluzionari può avvenire solo dopo la presa del potere da parte della classe operaia: «Ogni classe la quale aspiri al dominio, anche quando, come nel caso del proletariato, il suo dominio implica il superamento di tutta la vecchia forma della società e del dominio in genere, ‘deve dapprima conquistarsi il potere politico per rappresentare a sua volta il suo interesse come l’universale’, essendovi costretta in un primo momento» (K. Marx – F. Engels, ‘L’ideologia tedesca, Roma, 1969, p. 23; le virgolette sono nostre)]