“La scuola classica, ossessionata com’era dalla minaccia dei rendimenti decrescenti della terra (in assenza della libertà d’importazione), tendeva a concentrare l’attenzione sull’influenza restrittiva di questo fattore, ad esclusione di ogni altro: sul pericolo cioè di un aumento del costo delle sussistenze col crescere della popolazione, che avrebbe portato con sé, come conseguenza inevitabile, l’aumento del costo della forza-lavoro e la caduta del profitto (1). E’ nel quadro di questa discussione che conviene considerare la famosa dimostrazione marxiana dell’esistenza di una ragione puramente tecnica della caduta del saggio del profitto, e pertanto di una tendenza autoeliminatoria insita nel processo stesso dell’accumulazione del capitale. Si trattava del semplice fatto – già prima notato da qualche economista, come Senior o Longfield, che però non vi attribuirono importanza essenziale e in nessun modo lo inserirono organicamente nel corpo della dottrina – che il progresso tecnico aveva la tendenza ad aumentare la proporzione del “lavoro accumulato rispetto al lavoro vivente”: ossia del capitale fisso (misurato in termini di valore) rispetto al lavoro impegnato nella produzione corrente. Dato un certo “saggio del plusvalore”, o rapporto del valore prodotto col valore (espresso in salari) del lavoro direttamente impegnato nella creazione di quel prodotto, si avrebbe una tendenza alla caduta del saggio del profitto del capitale ‘totale’ (ossia tanto di quello anticipato nel pagamento dei salari dei lavoratori in questione, quanto di quello incorporato nelle attrezzature e scorte). Ma nell’atto stesso in cui enunciava questo principio, Marx sottolineava la possibilità di un altro effetto, del tutto contrario, del progresso tecnico. Quest’ultimo, qualora tocchi la produzione delle sussistenze dei lavoratori insieme alle altre branche della produzione – qualora cioè renda più a buon mercato i beni-salario insieme agli altri – tende a rendere più a buon mercato, non solo i prodotti dell’industria, ma la stessa forza-lavoro. E’ vero che, data una certa quantità di forze di lavoro a disposizione del capitalista, questi potrebbe trovarsi a disporre di un prodotto dello stesso valore totale di prima (poiché il valore del prodotto unitario è diminuito in seguito al mutamento); ma, se nello stesso tempo la riduzione più a buon mercato delle sussistenze ha determinato una diminuzione dei salari monetari, la forza-lavoro assorbirà una porzione minore del valore prodotto, e quindi la parte destinata al capitalista crescerà sia in proporzione che in ammontare. “L’aumento della forza produttiva, – osserva Marx – se vuol diminuire il valore della forza-lavoro, deve impadronirsi di quei rami d’industria i cui prodotti determinano il valore della forza-lavoro, cioè appartengono alla sfera dei mezzi di sussistenza abituali, oppure li possono sostituire… Invece, nelle branche della produzione che non forniscono né mezzi di sussistenza necessari, né mezzi di produzione per la preparazione di questi, l’aumento della forza produttiva lascia intatto il valore della forza-lavoro”. E in un altro passo: “Il valore delle merci sta in rapporto inverso alla forza produttiva del lavoro…Invece, il plusvalore relativo sta in rapporto diretto a questa forza produttiva…E’ quindi istinto immanente e tendenza costante del capitale aumentare la forza produttiva del lavoro per ridurre più a buon mercato la merce, e con tal riduzione, ridurre più a buon mercato l’operaio stesso” (2). (…) In secondo luogo non esiste alcuna “legge bronzea” lassalliana, in base alla quale una riduzione più a buon mercato degli oggetti che entrano a far parte della sussistenza del lavoratore provochi sempre e necessariamente un’equivalente caduta dei salari: è evidente che lo stato del mercato del lavoro in ciascun tempo e luogo determinerà se questo debba o meno avvenire” [Maurice Dobb, Problemi di storia del capitalismo, 1971][(1) Cfr. Ricardo, Principles, pp. 398-9 (ed.it., cit, pp. 518-19): “Nessuna accumulazione di capitali abbasserà in modo permanente i profitti, senza che siavi qualche causa, permanente del pari, la quale determini l’innalzamento delle mercedi. Se il fondo destinato al mantenimento del lavoro si raddoppiasse, triplicasse, quadruplicasse, non vi sarebbe alcuna difficoltà a formare il numero delle braccia occorrenti per dare impiego a quel fondo; ma in ragione della crescente difficoltà ad aumentare di continuo i viveri del paese, un medesimo fondo non manterrebbe probabilmente una medesima quantità di lavoro. Se gli oggetti indispensabili all’operaio si potessero sempre accrescere con una medesima facilità, nessuna permanente alterazione avverrebbe nel tasso dei profitti, o delle mercedi, qualunque fosse la somma del capitale accumulato”; (2) Marx, Capital, vol. I, ed. Unwin, pp. 304-5, 577 (ed. it., cit., vol I, 2, pp. 10-11, 15)]