“Il sociologo tedesco Ralf Dahrendorf, già noto in Italia per la sua opera ‘Classi e conflitto di classe nella società industriale’, ultimamente tradotta presso Laterza, riprende l’argomento [il concetto di giustizia in Marx, ndr] in modo sistematico in un suo nuovo libro: ‘Marx in Perspektive. Die Idee des Gerechten im Denken von Karl Marx’, Verlagbuchhandlung J.,H.W. Dietz, Hannover, 1963. Ma è veramente legittimo parlare, come egli fa nel sottotitolo, di un concetto specifico del giusto in Marx, e quindi del relativo problema? L’autore sa benissimo che il termine ‘giustizia’ (‘Gerechtigkeit’) non gode buona fama presso Marx (pp. 14-16), usato com’è, assai spesso, per ridicolizzare la fede proudhoniana o filantropica nella giustizia eterna. Egli ammette anche che Marx “non usa mai la parola e il concetto di giusto a proposito della società comunista” (p. 141). Queste sono difficoltà di non poco conto, quando si ponga mente alla rigorosità con cui Marx sceglieva i termini e con cui talvolta li mutava o ne coniava di nuovi, in armonia col proprio sviluppo intellettuale, al fine di adeguare perfettamente il linguaggio al pensiero: basti come esempio la faticosa genesi dell’espressione ‘forza-lavoro’, la cui storia, dai primi scritti economici, dove si parla ancora soltanto di ‘lavoro’ e poi di ‘capacità lavorativa’, fino al ‘Capitale’, si confonde direttamente con la genesi della categoria ‘plusvalore’. Però al Dahrendorff, che oltretutto dichiara di volere unicamente “far parlare Marx con le sue parole”, è sufficiente una premessa logico-linguistico-speculativa (pp.21-39) per arrogarsi il diritto di ricercare nelle opere marxiane un problema che, posto in quei termini, a Marx non interessa affatto (tanto più che, se gli fosse davvero interessato, non avrebbe avuto alcun bisogno di sottacerlo, né avrebbe esitato a chiamarlo per nome). (…) Marx ha indicato con chiarezza il carattere storico di tutti gli ideali, quindi, ammesso che se ne sia preoccupato, anche dell’ideale di giustizia (p. 49) che, in quanto componente della sovrastruttura, non può non seguire la sorte della base economico-sociale su cui si fonda. E qui il Dahrendorf, in modo un po’ schematico, ma sostanzialmente corretto, ce ne dà un’argomentata conferma (pp.40-71). In questo ambito il problema sembrerebbe dunque risolto. Senonché ecco l’incalzare del vero problema di Dahrendorf, che è quello del giusto in sé: “Non è l’opera di Marx una infiammata protesta contro la società borghese e il modo capitalistico di produzione? E non è una protesta contro la sua ingiustizia? (p. 69). “Che cosa contrappone Marx alla “giustizia dell’ordine borghese”, che è in realtà “aperta ferocia e vendetta senza legge”? Forse un nuovo concetto relativo del giusto? Oppure c’è un’altra idea, un’idea assoluta, su cui si fonda il pathos della sua critica?” (p. 71). Così, spingendo il lettore ad ammettere una premessa in cui giocano solo elementi soggettivi e sentimentali (la definizione dell’opera di Marx come “infiammata protesta”), dandone poi una gratuita traduzione mediante l’espressione “protesta contro l’ingiustizia” (…) si deduce la possibilità in Marx di un’idea assoluta di giustizia. Ma questa deduzione reca naturalmente in sé l’ambiguità delle premesse a cui si appoggia” [g.g., Il concetto di giusto in Marx] [(in) Critica marxista, Roma, n° 4-5 luglio ottobre 1964]
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- Articolo pubblicato:28 Dicembre 2013