“(Marx) cercava di trovare una formula per organizzare e disciplinare a fini pratici le energie di classe del proletariato. Come grido di raccolta, il concetto di “missione storica” del proletariato aveva un innegabile fascino; e Marx sentiva ch’era suo compito sfruttarlo in pieno. Ma la sua fiducia nell’inevitabilità della vittoria del proletariato non distruggeva la forza di quell’appello? Perché gli uomini dovevano affaticarsi a lavorare per una causa destinata a trionfare anche se essi non facevano nulla? Il modo di vedere di Marx non portava, anziché all’azione, al fatalismo? Egli non lo credeva. Al contrario, scagliava l’accusa di fatalismo proprio contro quei filosofi di cui combatteva le idee. Ciò che conduceva al fatalismo, a suo giudizio, erano le dottrine che esaltavano l”Idea” al di sopra del fatto, la razionalità al di sopra del quotidiano affaccendarsi degli uomini. Gli ideologi, osservava, guardavano sempre con occhio severo le riforme che implicavano qualche compromesso e i movimenti che ritenevano contaminati da motivazioni egoistiche; e questo li spingeva a starsene lontani dalle lotte contemporanee, anziché prendervi parte e cercar di utilizzare ogni effettiva forza sociale che potesse esser volta a buon fine. A Marx non importava nulla di operare con armi imperfette: era abbastanza realista per sapere che non c’era altro modo per realizzare qualcosa. Ed era anche abbastanza realista per capire che la certezza di vincere induce la maggioranza degli uomini a combattere più duramente, non a ritirarsi dalla lotta. Ciò sarà illogico, senza dubbio; ma psicologicamente è esatto. Tutta quanta la storia del marxismo sta a dimostrarlo; e tanta gente lo sapeva prima di Marx. I guerrieri antichi, quando credevano che il “dio delle battaglie” fosse al loro fianco, non se ne tornavano a casa ma combattevano con più ardore” [G.D.H. Cole, Storia del pensiero socialista. I precursori 1789 – 1850, 1972]
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- Articolo pubblicato:26 Giugno 2012