“Nei ‘Grundrisse, pubblicati a Mosca nel 1939, a cura dell’Istituto Marx-Engels-Lenin, Marx annotava: “Lasciar sussistere il lavoro salariato e nello stesso tempo sopprimere il capitale è dunque una rivendicazione che si autocontraddice e si autodistrugge”. L’interferenza esistente tra le due forze era reale e non poteva essere ignorata con un atto di volontà politica. Il lavoro operaio, come capacità lavorativa separata dal capitale, non era produttivo, lo diventava solo in quanto assunto dal capitale; come non-capitale esso era non-materia prima, non-strumento di lavoro, e viveva una “pura esistenza soggettiva” staccato dalla possibilità di realizzarsi come “sorgente viva del lavoro”. “Non è affatto una contraddizione dunque affermare che il lavoro per un lato è la miseria assoluta come oggetto, per l’altro è la possibilità generale della ricchezza come soggetto o come attività; o piuttosto i due lati di questa tesi del tutto contradditoria si condizionano reciprocamente e derivano dalla natura del lavoro, giacché questo come antitesi, come esistenza antitetica del capitale, è presupposto del capitale, e d’altra parte presuppone il capitale” (‘Grundrisse, 1969, I, p. 280). Sulla base di questa antitesi dinamica, funzionale, irreversibile, Marx poteva affermare: “Perciò il capitale è produttivo; ossia à un rapporto essenziale allo sviluppo delle forze produttive sociali” (ibidem, p. 318).” [Rita Di Leo, I bolscevichi e “Il Capitale”] [in Contropiano, n° 2 1969]